Le contraddizioni di una Sardegna legata alle tradizione ma che vive al suo interno spinte propulsive verso il moderno, verso quell’inclusione necessaria erano già tematiche presenti in Ballo a tre passi, primo lungometraggio di Salvatore Mereu, classe 1965 che proprio con quell’opera vinse il David di Donatello e il ciak d’oro come miglior regista emergente.
A distanza di diciassette anni e tanti altri film, il libro Assandira di Giulio Angioni ha spinto l’autore a tornare su quelle tematiche in maniera diversa mettendo al centro della storia Costantino e la sua famiglia. L’uomo ha un figlio che vive da diversi anni all’estero e che un giorno, con la sua sposa tedesca gli propone di aprire, sui terreni di famiglia, un agriturismo. Assandira sarà aperto ai tanti turisti soprattutto stranieri che sono legati ad un certo immaginario della Sardegna rurale e Mario chiede al padre di fingere di essere un antico pastore sardo, con tanto di vestito tradizionale. Grete, moglie di Mario, è la fautrice di quella finzione ostentata a tutti i costi e le sue tante foto in posa che scatta e che chiede ai turisti di scattare sono lo specchio di quell’idea di falsità della quale la donna si nutre.
Dietro questa finzione che vede i turisti parte attiva, se ne nascondono tante altre e un universo nel quale Costantino non può riconoscersi e nel quale ad un certo punto, con un risvolto tragico, decide di non stare più.
Il film inizia proprio dalla fine della storia per poi permettere allo spettatore di ripercorrerla a ritroso e scoprire tutti i sentimenti di disperazione e di rabbia che hanno portato Costantino, nella prima inquadratura, a piangere disperato avvolto dal fumo di una costruzione totalmente distrutta dal fuoco che solo la pioggia della notte ha potuto domato.
In Assandira presentato Fuori concorso alla 77esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e nelle sale dal 9 settembre, i diversi stati d’animo del protagonista ci sono restituiti non solo dall’efficace interpretazione di Gavino Ledda che parla con lo sguardo più che con le parole ma anche da una macchina da presa quasi sempre sul suo volto che lascia poco spazio all’esterno perchè Costantino si sente spesso chiuso in una gabbia, pur vivendo nella sua casa dove però sente che non c’è più rispetto per nulla, nè per la dignità umana nè per la terra.
Nella nostra intervista il regista ci racconta l’approccio documentaristico al lavoro svolto e il perchè della scelta (rischiosissima) del piano-sequenza che, secondo l’autore: “era l’unico modo per raccontare in maniera realistica e veritiera la storia, mettendo il giusto accento alle emozioni dei personaggi”.
Meritevole anche la scelta di una produzione indipendente che ha dato a giovani studenti universitari, usciti dall’Ateneo dove il regista insegna, la possibilità di entrare concretamente a far parte di una vera troupe cinematografica, in un film d’autore.
Buono spunto narrativo non sorretto da efficaci scelte registiche e soprattutto attoriali per il film in concorso The disciple di Chaitanya Tamhane che vede protagonista un bambino, poi uomo di nome Sharad Nerulkar che dedica tutta la sua esistenza allo studio della musica classica indiana. Il regista indiano che proprio a Venezia aveva esordito con il suo Court nel 2014, vincendo il premio di Orizzoni per il miglior film e il Leone del futuro ha dichiarato di essersi innamorato della musica classica indiana ma di quell’innamoramento non riesce e rendere partecipi gli spettatori che nel viaggio di formazione del giovane protagonista provano ad entrare senza successo, soprattutto perchè l’autore non riesce a creare e a rendere in immagini l’approccio anche spirituale che tale musica ha. Non basta far sentire ripetutamente gli accordi sulle variazioni vocali del Khayal per trasmetterne tutta la spiritualità e non serve far vedere come altri usano le tradizioni nei diversi show televisivi per trasmettere la purezza del protagonista che non cederà mai il fianco ad un approccio così commerciale.
Cercando il sublime nella musica classica indiana spiace che il regista non riesca ad aderire ad un discorso che abbracci davvero la contemporaneità.
Tra i produttori Alfonso Cuaron che nel 2016 collaborò con il regista indiano nell’ambito della Rolex Mentor-Protége arts initiative.
Al contrario, ottima scelta attoriale quella di Pedro Collantes che sul volto di Macarena Garcia disegna la storia di El arte de volver, presentata al Lido in Biennale College cinema.
Collantes è Noemi, una giovane attrice francese che si è dedicata anche alla pubblicità ma che dopo diversi anni a New York si chiede quale direzione stia realmente prendendo la sua vita professionale e sentimentale. La malattia del nonno, il suo ritorno a casa, i diversi incontri con amici del passato e la sorella, l’aiuteranno a far chiarezza e, forse, a rispondere a tante domande rimaste in sospeso per troppo tempo.
Ci sono diversi momenti divertenti, altri poetici soprattutto nel bosco dove Noemi incontra Carlos, un vecchio amico e poi quelli con il nonno sempre propositivo nella stanza della clinica. C’è una leggerezza di fondo che non è mai superficialità che avvolge la storia e che rende preziosi i momenti di introspezione della protogonista, il suo viaggio di conoscenza, il confronto e scontro tra desiderio e disillusione.
Un’opera prima dove il regista è stato bravo anche nell’uso moderato della musica, senza paura dei silenzi nei quali permette allo spettatore di vivere con la protagonista.
Abbiamo amato come da una luna che fa capolino dietro la clinica scelga di affidare uno degli ultimi contatti tra la giovane e l’anziano nonno e come rileggendo una poesia Noemi capisca che spesso il fascino degli alberi storti sta nel loro aver scelto, durante la crescita, di cambiare direzione.
giovanna barreca