Sidney Lumet: chi era costui? Per la grande massa del pubblico popolare, che è sempre più interessata agli attori coinvolti in un film rispetto a chi sta dietro la macchina da presa, il suo nome evocherà nebulose memorie di letture o ascolti distratti. Sì, Lumet, mi dice qualcosa, l’ho sentito da qualche parte… Eppure quello stesso pubblico ha sicuramente visto almeno una decina dei suoi film, visto che la sua lunghissima filmografia annovera alcune delle punte di diamante di una produzione hollywoodiana professionale e intelligente. Sidney Lumet ha piazzato, su ben cinque decenni di attività, più di un capolavoro di grandissima presa popolare, facilmente ricordato per la grande prova attoriale delle star di turno. La parola ai giurati (1957), Pelle di serpente (1960), Uno sguardo dal ponte (1962), Il lungo viaggio verso la notte (1962), L’uomo del banco dei pegni (1964), Serpico (1973), Assassinio sull’Orient Express (1974), Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), Quinto potere (1976), Il principe della città (1981), Il verdetto (1982) e Onora il padre e la madre (2007)? Sì, li ha diretti tutti lui. Non tutti capolavori assoluti, ovviamente, nemmeno quelli che abbiamo citato. Ma tutte opere che testimoniano una profonda e personale interpretazione del sistema-Hollywood, in cui il “grande cinema” e l’impostazione industriale non hanno mai soffocato la libertà di pensiero.
Legato a un’idea di cinema a suo modo “militante”, Lumet ha raggiunto i suoi migliori esiti nel cosiddetto “cinema civile”, ovvero nell’allestimento di opere che abbinassero il carisma di grandi attori a contenuti di provocazione. Sempre tenendosi all’interno di un solidissimo e tradizionale codice narrativo, ma mai tramite le soluzioni più facili. Nelle sue opere migliori, la struttura di racconto più ricorrente si configura nell’ “uomo solo contro il sistema”, dall’esordio con La parola ai giurati fino all’eccentrico poliziotto di Serpico, all’allucinato Sonny di Quel pomeriggio di un giorno da cani, alle malinconie senili di William Holden in Quinto potere e di Paul Newman avvocato avvinazzato in Il verdetto. Ma, si badi bene, la catarsi finale non è mai garantita – violazione notevole per i codici hollywoodiani. E quando la redenzione arride al protagonista, s’increspa sempre di amarezza. Il cinema di Lumet non è mai stato cinema di ricerca né di sperimentazione. Sul piano espressivo le sue opere si sono sempre adagiate in una grammatica condivisa e consolidata. Ma in lui, forse, è ravvisabile l’incarnazione più compiuta di una Hollywood seria e non in vendita (sempre più rara nei nostri anni), che ha sempre filtrato i propri contenuti tramite storie e personaggi realmente costruiti.
Ha lavorato con i migliori attori di varie generazioni, che grazie ai suoi film si sono portati a casa più volte l’Oscar. Lui ebbe diverse nomination, ma l’ambita statuetta non la vinse mai, se non tramite il classico atto riparatorio dell’Oscar alla carriera nel 2004. Peccato, perché nella categoria del più puro metteur en scène Hollywood ha partorito pochi altri veri professionisti come lui.