È bello che nonostante tutto si possa parlare di esordi, di opere prime, di prime volte e primi incarichi. È bello che nonostante tutto ci sia ancora qualcuno con la voglia di fare film, di avventurarsi per sentieri impervi e scoscesi, di arrivare in fondo al viaggio a conquistare una meta, anche piccola, anche minore. Giorgia Cecere – che il cinema l’ha imparato lavorando con Gianni Amelio e con Edoardo Winspeare – si è ritrovata con il suo primo lungometraggio alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione-vivaio Controcampo Italiano. Ora Il primo incarico arriva in sala. La storia è umile, piccola, vistosamente ispirata al racconto minuto, all’accumulo di dettagli: nell’Italia degli anni Cinquanta, stilizzata dai luoghi comuni del mito postbellico, una giovane trova la sua occasione di emanciparsi con la prima convocazione da maestra di paese. Dettagli: l’emancipazione è cercata ma non desiderata perché l’amore è già lì accanto e il paese dell’incarico non è un paese ma un disordinato gruppo di catapecchie, stalle e orti. Isabella Ragonese conferma un talento che però inizia a rischiare d’inaridirsi senza qualche bravo direttore d’interpreti che ne rieduchi l’estro. Cecere sta dentro la durata del lungometraggio senza troppe sofferenze ma pure con qualche eccesso di divagazioni. Nel complesso il racconto procede nitido e crudo, con perdonabili anse che rischiano a ogni tornante d’indebolire la struttura del film, già di per sé non particolarmente solida. La neo regista evita gli esordi tronfi e farneticanti, idioti e ottusi, brutti e noiosi di troppi rampolli nostrani; cerca la buona narrativa, cerca il buon cinema. E alla fine qualcosa trova.
Il primo incarico ci dà due notizie, una buona e una cattiva. La buona: nonostante tutto esistono ancora generazioni di nuove leve che tentano una loro strada d’affermazione e d’espressione. La cattiva: il nuovo che avanza, purtroppo, procede a retromarcia, più vecchio dei vecchi che l’hanno preceduto. Perché, concesso che il presente non debba diventare una nuova mefitica religione, Giorgia Cecere per il suo esordio nel lungometraggio sceglie di allontanarsi dall’hic et nunc, sceglie di costruire la sua ricerca all’ombra di colline sicure, all’ombra dei miti costruiti dai padri. E invece di tentare il colpo di mano, di tentare il tirannicidio artistico, di sgominare il canone consolidato del cinema italiano, pianta i propri piccoli semi – piccoli ma buoni – in una terra già marcia. Il passato è passato. E sarebbe anche ora che qualcuno ne prendesse atto. Il film di Giorgia Cecere comunque è un grazioso racconto che non dimentica il pubblico e merita dunque il prezzo del biglietto.
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