Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Lungo tutti i nostri anni Settanta viene definendosi un’ulteriore declinazione della commedia italiana. Si scopre la provincia, i vizi e vezzi della sconfinata realtà paesana nazionale. Si scoprono soprattutto i bollori che tumultuano sotto le vesti in contrasto con l’ipocrisia clerical-familistica. Tutti figli e figliastri, per amplissima astrazione, di Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi. Emerge inoltre un insistito ritorno a riflessioni di costume su epoche del nostro passato, con particolare attenzione all’epoca fascista. Grottesco spinto, deformazione di corpi e volti, toni survoltati. E, non ultimo, un diffuso spirito cupo e decadente. Il piatto piange di Paolo Nuzzi, ex-assistente di Fellini e autore di sole due opere per il cinema, s’ispira all’omonimo primo romanzo di Piero Chiara, che di quell’Italia pigra e balorda seppe dare gustosi ritratti. Riproposto in dvd dal 9 ottobre per Cinekult in versione integrale, il film di Nuzzi si presenta come una lettura accorta e partecipata di una retorica cinematografica in via di definirsi. C’è il grottesco, ci sono le situazioni piccanti, tanti luoghi comuni sull’italica maschiezza e sul fascismo da operetta, ma su tutta l’opera discende una sorta di cenere leggera e impalpabile. Il primo pregio è un’estrema aderenza tra tempi narrativi e intenzioni espressive. Nuzzi adagia infatti il racconto su ritmi lunghi e meditati, in perfetta sintonia con l’andazzo sonnacchioso di una Luino in riva al lago e con le vite “a perdere” dei vitelloni protagonisti, tra gioco d’azzardo e puntate al bordello.
Poi, ritaglia su Aldo Maccione un personaggio assai bello, un gaudente a un passo dall’erotomane che, senza farsi sfiorare nemmeno dall’idea dell’opposizione al regime, si prende però il meglio di quell’Italia spenta e impettita, cornificando mariti a destra e sinistra e rischiando pure la sifilide. Mostrandosi anche generoso e umano nei confronti di un amico omosessuale (poche volte è stata narrata nel nostro cinema la persecuzione omosessuale negli anni fascisti, soprattutto con la franchezza palesata da Nuzzi). Certo, il film soffre di episodicità e disperde spesso i propri personaggi: Agostina Belli e Andréa Ferréol spariscono dal racconto senza lasciare traccia, mentre a Macario, al suo ultimo ruolo per il cinema, non è consentito di sviluppare coerentemente la propria macchietta di matto del villaggio, reduce stordito della Prima Guerra Mondiale. In più, emergono alcune scelte tecniche assai debitrici dell’espressività del tempo (uno tra tutti, l’uso spropositato dello zoom). Ma Nuzzi riesce a cogliere con grande incisività uno dei nodi cruciali dell’epoca fascista: la deresponsabilizzazione sociale, narrata nei suoi effetti sull’universo maschile. Sarà il Càmola di Maccione sul finale a capirne la violenza, in una conclusiva presa di coscienza un po’ didascalica ma assai efficace nella sua crepuscolare malinconia. Nuzzi eredita dalle esperienze con Fellini il gusto per il grottesco e per la fisiognomica carnevalesca (la maitresse di bordello è Maria Antonietta Beluzzi, la tabaccaia di Amarcord, 1973), ma secondo una rilettura pienamente carnale. Che rasenta sì i vari pruriti attinenti ai nostri anni Settanta, ma lontano da qualsiasi morbosità commerciale, e sposando al contrario una sana franchezza dionisiaca. Per Aldo Maccione si tratta probabilmente dell’unica occasione da protagonista non comico. Davvero un buon attore di semitoni e crepuscolarismi, che meritava offerte migliori.
Il “Canto della Bernarda” secondo il Càmola: