Il cinema documentario in Italia non è più un genere “popolare” (se mai lo è stato davvero) almeno da cinquant’anni. Nei primi anni del nuovo millennio sembrò che un rapido e vasto cambiamento fosse ormai inevitabile. A distanza di un decennio si vede che il cambiamento c’è stato (ed è ancora in corso) ma nulla di paragonabile a una vera rivoluzione ha davvero scalfito l’anemica, piatta abitudine del pubblico italiano. I documentari sono ormai stabilmente tornati in sala, ma è ancora difficile che la non-fiction approdi sul grande schermo senza il viatico di un “tema” commestibile per le masse, un argomento facilmente riconoscibile e comprensibile dal solito stramaledetto “uomo della strada”, falso ideologico totemico davanti al quale produttori, distributori, esercenti ma anche autori si prostrano senza ritegno. Così succede che Giovanni Piperno, prima fotografo poi regista dalla doppia anima, cinematografica e televisiva, uno dei più stimati autori di cinema documentario nella scena attuale nostrana, si ritrova a lavorare su un film che come argomento ha la storia della dinastia Agnelli. Non un biopic sull’ascesa dell’Avvocato, né tanto meno una ricostruzione, documenti alla mano, della genealogia di una delle famiglie che ha fatto la storia d’Italia. Piperno, per evitare la didascalia ma anche l’agiografia, tenta la via impervia di un film che stia a metà tra home movie postumo e trattatello psico-storico personal universale. Il pezzo mancante è un’indagine implicita e ampiamente ellittica sulle figure rimosse, negate, oppresse e dimenticate nella famiglia Agnelli: soprattutto Giorgio, fratello di Gianni e di Umberto, morto meno che quarantenne in manicomio, ed Edoardo, primogenito dell’avvocato, morto suicida prima di arrivare anche solo all’orizzonte di ogni possibile eredità; ma anche alcuni tra i destini offuscati di qualcuna tra le molte donne della dinastia, come la madre di Gianni, estroversa e irrequieta, prima giovane madre (di altri sei figli oltre all’Avvocato), poi giovane vedova e infine prematuramente scomparsa – destino beffardo – in un incidente stradale. Piperno alterna intervista classiche, frontali, immediate, a lunghi collages d’immagini di repertorio pescate e scelte negli enormi archivi Agnelli; gli incontri frammentari, pedinatori, con alcuni degli amici e dei sodali testimoni della storia della famiglia, alle animazioni, montate come sintesi rutilanti, ritornelli retorici, in testa o in coda ai paragrafi impliciti di questo implicito, atipico saggio.
Il film nel complesso sfila rapido, teso, con qualche caduta di ritmo e di gusto (Gelasio Gaetani Lovatelli è tra i più insopportabili, inerti, afasici testimoni che un documentario abbia mai potuto vantare), ma poco o nulla del discorso di Piperno si chiarisce durante lo scorrere dei minuti, né i legami e le relazioni tra gli elementi convocati sullo schermo, e neppure la posizione, lo sguardo, l’idea di Piperno rispetto a quel che registra e monta insieme. Non un documento esaustivo, un’inchiesta approfondita, meticolosa e spietata, né un racconto pieno, un’aperta ricostruzione affabulatoria, Il pezzo mancante resta sospeso tra stili, fili narrativi e argomentativi, perdendo l’occasione di sfruttare un ampio repertorio audiovisivo e documentale per ri-costruire un nuovo punto di vista su uno dei dogmi/tabù più radicati della nostra storia nazionale: la santa nobiltà dei padroni della Fiat, l’Industria, con la maiuscola, bandiera e vanto, roccaforte e pozzo senza fondo, impresa eroica e banditesca, perno dell’Italia unita, specchio delle sue certe virtù e dei suoi vizi più invincibili.
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