Dal nostro inviato SILVIO GRASSELLI
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Finché c’è spazio per lo stupore si può dire di essere vivi. Dopo un discutibile “ingresso in società” con il documentario Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate (era la Settimana della Critica al Festival di Venezia di tre anni fa), il trentunenne pugliese Pippo Mezzapesa si ripresenta al pubblico portando in Concorso al Festival di Roma Il paese delle spose infelici, esordio nel lungometraggio di finzione tratto dal romanzo del quasi coetaneo Mario Desiati. Inizio anni Novanta, remota provincia tarantina: una coppia di amici – contornati da una variopinta galleria di personaggi – s’invaghisce del “mostro del villaggio”, Annalisa, una vedova poco più che adolescente dalle fattezze quasiangeliche annichilita dalla perdita del compagno, lasciatasi infine scivolare ai margini del consesso sociale.
Dell’origine letteraria resta quasi solo la solida efficiente intelaiatura del racconto, il resto è cinema vero, intessuto d’immagini forti e sottili, costellato di citazioni e suggestioni non tutte consapevoli, non tutte nobili o pertinenti. A cominciare dall’incipit “rovesciato”, tutto affidato al corpo adolescente del borghese Veleno, condannato a restare appeso a testa in giù per confessare la propria – presunta – omosessualità; passando per il lento volo della vedova bambina che si getta dal tetto della chiesa in piazza; fino al momento topico, l’esitazione di Zazà, appiattito al bordo di una giostra che gira forsennatamente, con gli occhi fissi al centro, dove Annalisa resta ferma, in piedi, perno degli sguardi e dei desideri (ricordate I quattrocento colpi di Truffaut?). Un piccolo trattato sull’adolescenza, crudo e leggero come sono i ragazzi a quell’età: un racconto che s’insinua nelle pieghe di menti e corpi ancora in via di costruzione, registrando i primi segni del dolore e della sofferenza, della solitudine e della riconoscenza, dell’amore. Mezzapesa – che, oltre a dirigere, ha anche collaborato alla scrittura del film – si dimostra capace intagliatore d’immagini ma anche e con maggior merito abile direttore d’interpreti: i pochi professionisti – tutti adulti – sono un accompagnamento ben temperato al sorprendente duetto di protagonisti “presi dalla strada”. Non tutto è perfetto, certo, e in fondo sulla costruzione dei personaggi si poteva lavorare di più, ma il film resta uno dei migliori esordi delle ultime stagioni e anche uno dei più lucidi racconti dell’adolescenza visti su grande schermo. Se il cinema italiano che esce in sala è ancora in grado di sorprenderci e di provocare stupore forse vuol dire che non è ancora morto.
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