(Dalla nostra inviata Giovanna Barreca)
26/11/10 – Evento speciale al 5° festival internazionale del film di Roma, con My name is Khan (Il mio nome è Khan) Karan Johar rivisita una pagina dolorosissima del nostro recente passato – il pre-post 11 settembre – per trovare la forza di un messaggio politico e di un messaggio universale legato all’amore che gli uomini dovrebbero avere nei confronti dei loro simili. Utilizzando un’atmosfera leggera da commedia-musical (tipica del cinema di Bollywood) ci racconta una fiaba d’oggi che ci mostra l’amore e anche l’odio e vorrebbe insegnarci come sconfiggerlo. Proviamo a spiegare perché.
Rivzan Khan, un indiano musulmano è affetto da sindrome di Asperger, un disturbo pervasivo dello sviluppo che da molti è considerata una forma lieve di autismo, che permette al personaggio di non conoscere le sfumature ‘degli adulti’ ma di avere un comportamento più simile a quello dei bambini che colgono ogni input dall’esterno e distinguono solo le cose buone e quelle cattive, le cose giuste e quelle sbagliate. Nella sua mente gli uomini cattivi sono quelli che, come gli aveva disegnato la madre quand’era bambino, hanno in mano un bastone. Quelli buoni sono quelli che tengono tra le mani un leccalecca. Quindi quando cadono le Torri Gemelle e il mondo lo ghetizza e lo condanna perché musulmano, lui non può capirlo, non può fare la distinzione che gli occidentali hanno creato. Un tuffo leggero in un America ferita; tante etnie diverse che si sono viste travolgere il futuro e un uomo mite come Khan che per ritrovare l’amore perduto (ma anche il perdono di un’intera nazione) deve rincorrere il Presidente degli Stati Uniti per dirgli “Il mio nome è Khan e non sono un terrorista”.
Abbiamo detto che si tratta di una commedia leggera perchè metà pellicola è giocata sulla conquista da parte di Khan della bellissima Mandira, madre single di religione induista trasferitasi negli USA per rincorrere il sogno americano. Quando un terribile atto di violenza mette fine alla loro felicità, decide, come ha dichiarato il regista “di intraprendere un difficile viaggio attraverso l’America contemporanea, luogo oscuro e complesso come il cuore umano. Un viaggio che, inconsapevolmente, si trasforma nel più improbabile atto di sfida, di pace e compassione da parte di un uomo che con la sua disarmante autenticità riesce a toccare il cuore di tutti coloro che incrocia sul suo cammino”.
Abbiamo chiesto, senza successo (colpa nostra che abbiamo formulato in maniera impropria la domanda) com’ era nata l’idea di utilizzare proprio questa sindrome che permette di rendere credibile la straordinaria ingenuità e verità che comunica Khan: un uomo adulto semplice, dai sentimenti sinceri e puri, dalla sensibilità esaltata tanto che, in alcuni istanti, tutti gli spettatori sono portati a riconoscersi in lui. O almeno sognano di farlo sia nei momenti di gioia che in quelli nei quali Khan è spaventato e incapace di capire quello che sta succedendo. Una storia esemplare con la quale il regista indiano cerca di non cadere nella retorica, grazie anche alla musica e ai volti intensi di tutti i personaggi, sia principali che secondari (basti pensare al fratello e alla cognata di Khan). Sicuramente, come abbiamo detto, si tratta di una storia ben studiata (con un cast imponente, basti sfogliare le 27 pagine del pressbook che riportano tutti i nomi e ruoli) che però è legata troppo ad un’estetica televisiva all’occidentale con tanti primi piani dei protagonisti accompagnati da ‘rassicuranti’ campi medi-totali. Il tema è forte (e allo stesso tempo sconfortante perché, trattandosi di passato recente, tutti noi abbiamo vissuto quei terribili anni) ma non riesce a trasformarsi in null’altro. E’ – ribadiamo – una bella favola che parla di amore e di pace per tutti gli uomini della terra.