Dopo A Iucata e I pescatori di corpi, il regista novarese Michele Pennetta (classe 1984) torna in Sicilia per completare (forse) una sorta di trittico sull’isola e lo fa spostandosi nell’entroterra, conoscendo due giovani Malpelo dei nostri giorni che, come il protagonista della novella di Verga, sembrano essere al mondo “senza osar di lagnarsi”, accettando – nel caso di Stanley – che ci siano italiani, attorno a lui, che pensano ai neri come a dei miserabili. “Come se da noi non avessimo avuto una vita e che cominciasse tutto qui” dice il giovane, chiacchierando con l’amico .
Oscar è un adolescente siciliano che passa le sue giornate e raccogliere rottami abbandonati nelle campagne, in una zona che, fino a pochi anni fa – quando si lavorava nelle miniere di zolfo – era tra le più ricche del paese. Stanley invece ha il corpo già di un uomo ma è poco più di un ragazzo come Oscar. Sul petto porta i segni delle torture e la sua storia: la fuga dalla Nigeria, il coraggio di attraversare il Mediterraneo per arrivare in Sicilia dove vive di lavoretti precari tra un aiuto in parrocchia e la raccolta di frutta nei campi.
Come Malpelo intraprese la via del passaggio pericoloso nella cava – che lo porterà a smarrirsi – senza dir nulla (“intanto a chi sarebbe giovato?”), allo stesso modo Oscar e Stanley si trascinano in una quotidianità fatta di piccoli momenti di svago come una nuotata, un ballo in discoteca improvvisata, un giro in bici tutto con l’indolenza di chi del futuro non sa nulla (o ha paura) e resta in attesa. Pennetta è con loro, segue con pudore due esistenze riprese nel loro divenire e un montaggio alternato le mette, per tutta la durata del film, una accanto all’altra. Oscar e Stanley si muovono negli spazi che spesso, grazie ai campi medi, li raccontano in luoghi pieni di luce che è vita. Vita che sembrano impossibilita a cogliere nella sua vera essenza, con la sua forza propulsiva.