Il figlio di Babbo Natale

16/12/11 - Il nuovo film della Aardman Animations stempera il cinismo contemporaneo con una massiccia dose di vero spirito natalizio, tenerezza e ilarità.

Può esistere ancora lo spirito natalizio nel mondo globalizzato? Nel mondo del web, del sovraccarico di informazioni, dell’hi-tech, di iTunes, dei tablet, degli smartphone e delle smart tv? O magari a forza di rincorrere l’i-Tutto siamo rimasti senza più nessun vero desiderio e vera fantasia? La domanda praticamente si ripropone ad ogni nuova festività, e di solito se ne rivà in fretta come è arrivata, insieme alle carte dei regali scartati e ai rimasugli del cenone. Arthur Christmas (da noi Il figlio di Babbo Natale), dell’esordiente Sarah Smith, ha trovato il modo di ricordarcela in maniera tenera e divertente, senza moralismi e con un pizzico di quella sdolcinatezza che per un’uscita di Natale diventa inevitabile e quasi piacevole.

Il film, realizzato in computer grafica dalla Aardman Animations, la factory del cartoon famosa per le stop motion come Wallace & Gromit e Shaun the Sheep, parte chiedendosi in maniera molto classica come faccia Babbo Natale a consegnare i regali in una sola notte ai bambini di tutto il mondo, tra l’altro con una crescita demografica così consistente e con tutti i dispositivi di sicurezza più all’avanguardia per la protezione dei cieli. La risposta è semplice: anche il mitico signore dalla barba bianca e il pancione si è convertito agli ultimi ritrovati dell’elettronica e della tecnologie militare. Mandate in pensione la gloriosa slitta e le renne, viaggia su un jet gigantesco capace di solcare i cieli a velocità supersonica mimetizzandosi con le stelle. E per penetrare con discrezione nelle case dei bambini, si fa aiutare da elfi in mimetica, addestrati con piglio militare e tutti dotati del loro personale “Hoho 3000”, un cellulare satellitare con molteplici funzionalità. Tutto sembra perfetto per rispondere alle sfide del nuovo millennio, salvo che per una cosa: l’età di Babbo Natale, ormai giunto alla sua 70/a missione e un po’ spiazzato dalla vera e propria macchina da “guerra natalizia” messa a punto da suo figlio maggiore, Steve. Si dà il caso infatti che Babbo, discendente di una stirpe centenaria, sia davvero padre, e abbia ben due eredi. Il maggiore è a metà tra un marine e un vero business man, con tanto di completo Versace. Il minore è invece l’imbranatissimo Arthur, tutto cuore e poco senso pratico. Così poco, da rischiare il tutto per tutto pur di consegnare l’ultimo regalo alla sola bambina che per sbaglio è rimasta senza, dimostrando così che non servono aerei supersonici e GPS per continuare la tradizione, ma solo un sincero trasporto e un pizzico di follia.

L’idea della “militarizzazione” della consegna dei regali la notte della vigilia non è propriamente nuova: qualcuno ricorderà un’angosciante pubblicità di un’emittente televisiva su questa falsariga, mentre a concentrarsi sul lavoro da soldato svolto dagli elfi era già stata la Disney con il simpatico mediometraggio dal titolo Lanny & Wayne – Missione Natale. La particolarità di questo Il figlio di Babbo Natale non sta quindi solo nella storia ma nella cura estrema di ogni singolo dettaglio, sia visivo che dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi. Si va dal sentimentalismo eccessivo ma non smielato del protagonista – pulcino che deve ancora uscire dal suo guscio – al cinismo irriverente di Nonno Natale, un ex-Babbo che si è caricato il sacco in spalla per una guerra mondiale e per il Vietnam, e che non si rassegna all’essere stato mandato in rottamazione. Molto ricchi appaiono inoltre gli spunti che ruotano intorno alla storia principale e al suo perno, cioè la necessità di sottolineare a bambini e adulti che il Natale ha senso solo se viene vissuto in un certo modo, ad esempio ricordandosi che c’è sempre il tempo per fare un fiocco a un pacchetto. O che non importa quale regalo arrivi sotto l’albero o come ci arrivi, basta che venga fatto con amore e per la gioia dei più piccoli. Certo, passa anche il messaggio che costi quel che costi, i bambini devono continuare ad avere i loro giocattoli. E da qui emerge l’inquietante rimosso del film, quasi freudiano: il Natale, per come lo conosciamo dal dopoguerra a oggi, è l’apoteosi del consumismo, e su questo neppure il buonissimo Arthur sembra avere nulla da obiettare.

LAURA CROCE

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