Dalla nostra inviata CATERINA GANGEMI
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“Fidati di me, non sono un latin lover”, cantava Cesare Cremonini, ex leader del gruppo Lùnapop, in uno dei suoi maggiori successi. Eppure la stoffa del seduttore sembra averla davvero, almeno nella finzione della celluloide e sotto la sapiente guida di Pupi Avati che lo ha voluto come protagonista de Il cuore grande delle ragazze, presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma. Da sempre abilissimo nella direzione degli attori e celebre per il suo fiuto nello scoprire nuovi talenti in outsider dell’ambiente cinematografico, il regista ha infatti scelto il giovane cantautore bolognese per affidargli un ruolo impegnativo, ispirato nientemeno che al proprio nonno materno.
Protagonista di un affresco familiare d’epoca sullo sfondo di una non precisata cittadina centro-settentrionale degli anni ’30, Cremonini è Carlino, sempliciotto sciupafemmine dall’irrestibile alito profumato al biancospino che, costretto a un matrimonio di interesse con una delle due racchie eredi del signorotto locale, finirà per innamorarsi e convolare con la di lui figliastra appena giunta da Roma. “E’ stata un’esperienza nutriente – ha affermato in conferenza stampa l’artista – e non lo dico solo da buon emiliano ma da un punto di vista umano: tutto ciò che può arricchirmi deve entrare dalla porta principale della mia vita. Uno dei motivi per i quali ho accettato la proposta è stato poprio il fatto che Pupi abbia visto in me la spontaneità di bolognese che rievocava i suoi ricordi di gioventù”. Ed è proprio la nostalgia, l’affettuosa memoria del proprio vissuto, il termine chiave che identifica la pellicola collocandola schematicamente in quel calco autobiografico e ormai ripetitivo nella sua stanca iterazione dei consueti topoi tematici e stilistici che caratterizza l’opera dell’autore negli ultimi anni. Così, se nel dar fondo al suo repertorio consolidato e rassicurante del resoconto di una vita frugale e gaudente, buffo e naif, e del ritratto di personaggi pittoreschi e connotati con verve umoristica, Avati riesce a convincere e a tratti divertire, le magagne emergono nell’inconsistenza narrativa di una storia banale e stucchevole, e in alcune discutibili scelte di casting che – tra vistosi ritocchi estetici, invecchiamenti posticci e attori fuori parte – sottrae genuinità al tutto con esiti anacronistici e involontariamente grotteschi. Il risultato è un album ormai ingiallito di figurine Liebig, dal quale oltre alla rivelazione Cremonini, esce indenne solo lo zoccolo duro dei caratteristi formato da Andrea Roncato, Gianni Cavina e Gisella Sofio, mentre non altrettanto si può dire della protagonista femminile Micaela Ramazzotti, il cui talento sembra refrattario perfino al cospetto delle doti rabdomantiche del regista.
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