A tre anni dalla sua realizzazione e a due dalla prima italiana al Far East di Udine, esce in sala il bizzarro western Il buono, il matto, il cattivo diretto da Kim Ji-woon e distribuito dalla Tucker Film. L’horror Two Sisters (2003) e il noir A Bittersweet Life (2005) sono due dei precedenti film di questo regista sud-coreano già distribuiti in passato nelle sale italiane, mentre l’estenuante revenge-movie alla Park Chan-wook, I Saw the Devil (2010) è stato presentato lo scorso anno al Festival di Torino. Questa rapida panoramica sugli ultimi film di Kim Ji-woon è necessaria per intuire il proposito che lo ha mosso nel tentare una rilettura dell’opera di Sergio Leone, Il buono, il brutto, il cattivo: l’esigenza dell’eclettismo e la volontà – quasi spericolata – di passare senza colpo ferire da un genere all’altro. Come avrebbe fatto magari un tempo un buon mestierante della vecchia Hollywood si potrebbe dire. Invece con Kim Ji-woon la questione si pone in modo diverso e Il buono, il matto, il cattivo lo rivela in modo emblematico. Il film vede al centro della vicenda, così come nell’originale di Leone, tre pistoleri dalle diverse caratteristiche ma con un identico obiettivo, quello di raggiungere un tesoro nascosto. Si sposta l’ambientazione storica e dallo sfondo della Guerra Civile americana si passa alla Manciuria occupata dai giapponesi negli anni ’30. Ma quel che soprattutto cambia è il tono complessivo del racconto: Kim Ji-woon si lascia andare a un pot-pourri stilistico che mette insieme sparatorie e arti marziali, improvvise invenzioni registiche e piattezza inaspettata, demenzialità, inseguimenti interminabili con folle accumulo di inseguitori e inseguiti, musiche dalle sonorità impure che puntano più a parodiare che a omaggiare il tocco indimenticabile di Ennio Morricone, ecc. Su tutto, quel che manca in maniera evidente – e consapevole – è l’epica leoniana, così come latitano l’umanità e la carica drammatica dei personaggi.
Il buono, il matto, il cattivo allora diventa un perfetto modello di blockbuster pan-asiatico, un esempio di come il cinema commerciale coreano odierno (ma anche giapponese e cinese) metta insieme di tutto e di più, per un miscuglio totale di stili, per un eclettismo sovraeccitato orgoglioso della sua sovrabbondanza. Perciò Kim Ji-woon, con il suo saltabeccare da un genere all’altro (senza mai aderirvi pienamente), si pone sostanzialmente come il campione di questa forma di cinema, ormai dimentica di ogni coerenza. Ciò non toglie tuttavia – e anche in questo si ritrova l’emblematicità del regista e del film – che Il buono, il matto, il cattivo riesca ad assommare non poche sequenze stilisticamente rilevanti, guizzi non privi di fascino capaci di coinvolgere improvvisamente lo spettatore. Non si può concludere però senza fare un rapido cenno al doppiaggio: per un film che nell’originale prevedeva interventi in lingua non solo coreana, ma anche giapponese e cinese, è sbagliato tradurre tutto in italiano, così come non si capiscono certe stranezze, quali ad esempio la scelta di trasformare la dinastia Qing (ultima dinastia cinese, di stirpe Manciù, che governò l’intera Cina dal 1644 al 1912) nell’inesistente dinastia King.
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