Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
La programmazione della 13/a edizione del Far East ha permesso di allargare il campo delle cinematografie approcciabili anche alla Mongolia, con Operation Tatar di Baatar Bat-Ulzii. Tra gli altri “cinemi minori”, come Singapore e il Vietnam, spiccano (per assoluta sgangheratezza di messa in scena) due film malesi, Seru di Woo Ming Jiin e Pierre André e Hantu Kak Limah Balik Rumah (let. Il fantasma della signora Limah torna a casa) di Mamat Khalid. Mentre, a lato di paesi più presenti come la Cina (e Hong Kong), il Giappone e la Corea, torna ad essere quasi inconoscibile il cinema thailandese, quest’anno rappresentato da soli tre film.
Operation Tatar è un film molto lontano dall’immagine tradizionale ed esotica che si ha della Mongolia. Invece di vaste praterie e guerrieri tartari in groppa ai loro cavalli, il film di Baatar Bat-Ulzii è tutto ambientato nei paesaggi urbani della capitale mongola Ulan Bator e vede come protagonisti quattro scalcinati rapinatori di una banca. Con un soggetto così occidentale – la mitologia americana della rapina in banca – e tanto sfruttato da essere usurato, il regista riesce comunque a metterci del suo, da un lato con una certa spontanea ingenuità, dall’altro con una divertente costruzione di flashforward attraverso cui i protagonisti immaginano come saranno spavaldi nel rapinare la banca. Certo, il film è a bassissimo costo e la regia appare decisamente zoppicante (soprattutto nelle imbarazzanti scene melodrammatiche), però in fin dei conti questi difetti rientrano in un discorso di coerenza più ampia. Con molta auto-ironia Baatar Bat-Ulzii ci racconta infatti – per via di una grottesca rapina in banca – quanto sia difficile fare il regista, non solo a Ulan Bator ma ovunque: c’è sempre uno scarto inevitabile tra quel che ci si immagina e quel che succede nella realtà.
I due film malesi della selezione, Seru e Hantu Kak Limah Balik Rumah, sono la conferma di come spesso nel cinema dell’Estremo Oriente sia vista con maggior favore l’idea dell’improvviso scarto di tono, dell’inaspettato deragliamento narrativo e del cinema come artigianato. Non è il caso chiaramente di una cinematografia come quella coreana ad esempio, in cui la professionalità a volte è così ricercata da trasmettere un’idea di freddezza, ma lo è in molte altre situazioni. In particolare, in Seru e in Hantu Kak Limah Balik Rumah si assiste a delle produzioni di un low-budget a tratti esasperante e a dei riferimenti all’horror americano così palesi e così sguaiati da proporsi come autentica parodia pauperistica.
Diverso il caso della Thailandia la cui cinematografia, nonostante la vittoria al festival di Cannes del 2010 di Zio Boome che si ricorda delle vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul (primo film thailandese a vincere in un festival così importante), soffre della situazione politica turbolenta che il paese attraversa da un paio d’anni e che si è acutizzata proprio nel 2010. Ed è quasi certamente questa la conseguenza della scarsa rappresentanza thailandese alla 13/a edizione del Far East Film. Tra i tre film selezionati, A Crazy Little Thing Called Love, Mindfulness and Murder e Bangkok Knockout, è senza dubbio quest’ultimo a vantare una maggiore originalità di genere. Bangkok Knockout è infatti un film girato in puro spirito thai action, con sequenze d’azione pericolosissime, senza stuntmen e senza effetti speciali. È un genere di grande successo in patria e sostanzialmente adatto anche a un pubblico occidentale che non può che assistere ammirato e meravigliato alla messa in scena di un realismo assoluto di estrema pericolosità. Quel che però difetta in Bangkok Knockout è la narrazione che, se mancante del tutto, poteva essere anche un bene (come a dire: guardate e stupitevi dei combattimenti) ma, nel momento in cui appaiono invece dei brevi elementi narrativi, questi risultano del tutto fuori contesto e si sopportano a fatica in attesa di un nuovo scontro fisico.