Harry Potter 7 – Parte 2

12/7/11 - Dopo 10 anni, l'ultima volta del maghetto sul grande schermo: con I doni della morte si conclude la saga che ha appassionato più d'una generazione.

“Tuttofinisce”. È la scritta che campeggia sui cartelloni pubblicitari di Harry Potter in giro per le città ormai da qualche settimana. Cos’è questo “tutto” che finisce? Una saga letteraria prima e cinematografica poi che ha ridisegnato il mercato del libro prima, quello del cinema poi (con prolungamenti digitali tutt’altro che trascurabili tra la rete e i videogiochi), una serie che sul grande schermo è durata dieci anni tondi con sette titoli e otto film, un’epopea dal respiro narrativo e dalla statura stilistica piccoli e malfermi, tanto sulla pagina quanto sullo schermo, che ha seguito però la parabola della nuova fortuna del genere fantasy quasi dal suo inizio più evidente ai segni sempre più decisi di una crisi che forse non avrà un lieto fine.

Tali e tante le aspettative dei fan e quelle dei produttori intorno al fenomeno Harry Potter che l’epilogo – da molti temuto, da altri invocato, da tutti molto atteso – è stato fatto a fette, diviso in due, in modo da raddoppiare la suspance e – così sperano gli investitori – anche gli spettatori. Ma restiamo sul film, almeno per un momento. Più solida, compatta e vigorosa della prima parte, questa seconda – lunga ben 130 minuti – piacerà a molti, soprattutto a quelli che per sette lunghi film hanno atteso che l’ispirazione epica contaminasse l’altrimenti fatuo kindergarten di Hogwarts: meno magie, sprizzi di blu e aloni di verde, meno hocus pocus, meno paroline magiche in latino maccheronico e finalmente più tensione, più azione, più duelli ma soprattutto la prima battaglia vera e propria. Una rivincita delle avventure sulle situazioni, dei personaggi secondari sui protagonisti, una rivoluzione che ha investito soprattutto sceneggiatura e lavoro sugli/degli attori: se infatti da una parte è stato necessario fare economia di parole – giovando in questo modo al vezzoso impianto dei dialoghi, di solito costruito secondo il credo del pleonasmo – dall’altra agli interpreti è stato concesso meno birignao da “film per ragazzi”, meno ammiccamenti, strizzatine d’occhio, spallucce e svolazzamenti di capelli per lasciare invece spazio libero a qualche asciuttezza in più. Naturalmente questo non è bastato a evitare del tutto battutacce, incidenti (gravi) di sceneggiatura (contraddizione, buchi, cambi di ritmo fuori controllo) ma soprattutto non è bastato a evitare a un pubblico più soddisfatto che in passato il fatale agguato di un finale posticcio (letteralmente: giudicate voi stessi dal trucco degli attori), stonato, patetico più del sopportabile, di certo inutile. Ma la regia – la quarta del britannico David Yates – per una volta (fatta eccezione per l’inusuale quarto capitolo – Harry Potter e il prigioniero di Azkaban – firmato da Alfonso Cuaron) ha primeggiato – sapendo tra l’altro sfruttare in maniera tutt’altro che ingenua la sempre più scomoda risorsa del 3D – imprimendo al film toni foschi e gravi, imponenza ed esattezza delle immagini, compattezza e tensione al racconto. Insomma, spassatevela: l’ultima volta sarà forse anche la migliore.

SILVIO GRASSELLI

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