Dal nostro inviato SILVIO GRASSELLI
Se Ken Loach scrivesse e dirigesse un film sotto l’effetto di mescalina probabilmente il risultato non sarebbe molto lontano da Hail, anomalo esordio di Amiel Courtin-Wilson: una storia di amore e di sangue calata in un’anonima periferia, sociale e urbana, dell’occidente contemporaneo. L’ispirazione è venuta a Courtin-Wilson dall’incontro con un ex detenuto e con la sua compagna. Sulla loro intensa relazione e sul loro modo duro e netto di guardare il mondo il regista ha voluto costruire due protagonisti cinematografici, sfruttando l’esperienza di documentarista e mescolando con acume realtà e artefazione, scrittura e improvvisazione. Se dunque i baci appassionati, i lunghi abbracci e gli sguardi di passione tra i due maturi protagonisti sono pezzi di mondo, così come lo sono i loro corpi segnati dal tempo e dalle ingiurie di una vita condotta sempre “contro”, il filo degli eventi è in parte ricostruzione, libera ispirazione, riconfigurazione del passato e del possibile in una dimensione parallela, né vera né falsa, non realistica ma plausibile.
L’incipit sembra quello di un solido dramma d’ispirazione anglosassone. Invece gradualmente si sprofonda in un racconto nero che ondeggia violentemente tra la luce e il buio, il sogno e l’incubo. Alla favola bella del rientro in società del protagonista, dopo l’ennesimo periodo in carcere, segue presto l’esplodere della rabbia e della violenza, della ribellione e della vendetta e si trascorre in pochi rapidi e affilati passaggi dall’ottenimento di un lavoro, alla caccia dell’assassino della compagna, dalla ricerca di una vita redenta dall’ordinarietà, all’epico inseguimento di un nobile trapasso e del finale ricongiungimento con l’amata. Il razionale “reinserimento” nei ranghi dell’ordinata routine borghese cede il posto a una vita da bohemienne e poi al gorgo senza tregua del delitto e del castigo. Contemporaneamente nella successione logica dei fatti inizia a infiltrarsi un ritornello visionario che pian piano si espande e si articola, fino a trasformare l’intero corpo del film. In poche rapide mosse Courtin-Wilson sposta l’asse del racconto sconvolgendo emozioni e aspettative dello spettatore, che – invece di essere lasciato nel suo comodo ruolo di censore e giudice di una storia morale (o moraleggiante) – si ritrova aggredito e coinvolto dalle spericolate acrobazie stilistiche di un film brusco e deliziosamente ruvido.