Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Selezionata alle Giornate degli Autori per Venezia 68, con Habibi Rasak Kharban la regista Susan Youssef dal documentario passa alla sua prima opera di finzione rimanendo fedele alla sua idea di cinema che si fa riflessione sul presente e sulle sue tragiche contraddizioni. Qui mette in scena Majnun Layla, un antico racconto del VII secolo ambientato in Arabia dove si narra l’amore tormentato tra Layla e il poeta Qays. Cosa sarebbe stato di questi due amanti nel XX secolo in una città sotto continuo assedio come Gaza? Beh, secondo la regista che abbiamo imparato ad amare grazie a Forbidden to Wander (presentato con successo al Sundance e al Moma di New York), avrebbe avuto i volti di una bellissima giovane universitaria che vuole lavorare come architetto e quello di un ragazzo inquieto che ama leggerle e dedicarle poesie, accarezzarle il volto con dolcezza. Ma l’unione tra i due viene ostacolata dagli eventi perché siamo nel 2001 e Israele costringe gli studenti arabi a lasciare l’università. Così, quando Layla torna a casa, deve fare i conti con una famiglia che la vuole moglie e madre e che a tali scopi si è già procurata un marito “adatto”. Troppo povero, Qays cerca di reagire accumulando denaro grazie a un lavoro come muratore e scrivendo i suoi versi d’amore su tutte le pareti della città, ma la violenza della guerra fa degenerare gli eventi.
I tanti rimandi sotterranei e i legami alla triste attualità delle guerre nel Medio Oriente fanno sì che Habibi Rasak Kharban si trasformi in una riflessione etica sul presente e le sue contraddizioni in cui emerge il conflitto in Layla tra il desiderio di seguire le regole della tradizione e l’impossibilità, per una donna palestinese che cerca di emanciparsi, di potervi aderire in una città sotto assedio. Altro “figlio” della tragica situazione palestinese, Qays, viene visto invece da Youssef nella sua doppiezza e ambiguità di uomo, in un contesto come quello della guerra che deforma i giudizi sostituendo pace e amore con l’aberrazione di comportamenti arcaici e violenti. La regia e ogni movimento di macchina si limitano a essere al servizio della storia che trova un’unità di spazio tra la periferia di Qays e il quartiere di Layla e sono anche al servizio dell’osservazione di piccoli gesti mai invadenti: il portare il té, il colpire la sabbia, il tenere il libro di poesie tra le mani. Sono questi dei particolari del vivere quotidiano dei due giovani che ci restituiscono tutto il senso della loro vita vissuta alla ricerca costante di concretezza e verità. Peccato, in tutto ciò, per una sceneggiatura poco attenta e un po’ slabbrata, di certo inferiore alla regia: infatti, laddove le immagini riescono a restituire in maniera chiara e diretta il senso di trappola dei due ragazzi, la scrittura delle differenti situazioni è invece a volte approssimativa.