Pino è cresciuto in un orfanotrofio, ha avuto diverse mogli, ha una figlia con cui non parla più, ha la passione per il rally e per i motori; fa il meccanico e gestisce un’officina a San Giovanni a Roma. Da anni ormai ha deciso di volersi vestire da donna e ha fatto anche un’operazione al seno: da allora si fa chiamare Beatrice. L’eccezionalità della vicenda di Pino/Beatrice – nota da tempo nel quartiere – non poteva non finire un bel giorno su grande schermo. Non si è fatta sfuggire questa occasione Elisa Amoruso, giovane regista e sceneggiatrice che con Fuoristrada – già mostrato alla scorsa edizione del Festival di Roma – ha realizzato il suo esordio nel lungometraggio. Il documentario che ne è emerso però più che raccontare con enfasi la stramba condizione umana di Pino/Beatrice si concentra – giustamente – sul rapporto d’amore che questi ha intrapreso con Marianna, una donna rumena che gestisce una sartoria sempre a San Giovanni.
L’amore è cieco
Inizialmente Marianna faceva da badante alla mamma di Pino e notevole è stata la sua sorpresa quando ha visto quest’uomo che andava in giro vestito da donna. Ma, evidentemente, con il passare del tempo deve essere scattato qualcosa fino al 2010 quando i due si sono addirittura sposati – perché, da passaporto, Pino è ancora un uomo. Amoruso mostra la vita in comune tra i due che condividono una casa in campagna insieme al figlio di Marianna, avuto da una precedente relazione, e alla mamma di Pino, ancora viva. Ne nasce il ritratto di una famiglia che solo apparentemente non è normale, mentre invece al suo interno si sviluppano delle dinamiche assolutamente classiche (il nipote che non vuole fare compagnia alla nonna, i piccoli screzi tra Pino e Marianna, ecc.). Accanto a episodi di vita quotidiana, si alternano momenti in cui Pino racconta la sua vicenda e dialoga con Marianna, sempre al suo fianco.
Una regia discreta
Elisa Amoruso, infatti, si mette in ascolto e documenta quanto accade davanti ai suoi occhi, senza mai provare a forzare il racconto. E, dopo una rapida presentazione del lavoro in officina, si concentra sul privato di Pino e sul suo rapporto con Marianna e con gli altri familiari. Vi sono in tal senso anche gli episodi relativi al dissidio con la figlia e a quello della morte del cane di Pino su cui la Amoruso mantiene la giusta distanza e non appare mai invasiva. Probabilmente l’unica – azzeccata – ricostruzione fatta ad hoc, al di là dei brevi momenti in cui Pino parla di sé rivolto alla regista, è quella su cui si conclude il film: un camera-car a bordo di un fuoristrada che testimonia sia la passione di Pino per i rally sia, simbolicamente, intende alludere a una vita fuori “dai bordi” e dunque borderline.
La mancanza di guizzi
L’impressione conclusiva, però, è che Fuoristrada si lasci sfuggire qualcosa. Forse sin troppo rispettosa della vicenda umana di Pino/Beatrice, la Amoruso sembra non poter e non voler mai affondare nel racconto, come se non volesse – documentaristicamente – sporcarsi le mani. In effetti, la discrezione della regia di Fuoristrada è possibile che abbia un suo contraltare nella mancanza di un profondo rapporto umano tra la regista e il suo protagonista, un rapporto che è basato sulla cortesia e sul rispetto ma che non riesce mai a spiazzare o a farsi più confidenziale. Probabilmente, allora, il malinteso di fondo su cui si muove Fuoristrada è una presunta oggettività della macchina cinema, un malinteso che in parte inficia la riuscita del film privandolo di un certo grado di emozione e che sarebbe potuto scaturire se tra la Amoruso e Pino/Beatrice ci fosse stata una maggiore complicità.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi