Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Spesso David Guggenheim ha puntato l’attenzione su piccole storie per affrontare discorsi di più ampio respiro. Per avvalorare la tesi basti ricordare il documentario An Inconvenient Truth che, attraverso la singola esperienza professionale e umana di Al Gore, puntava l’attenzione sul tema del surriscaldamento globale. Ma si pensi anche alla piccola scuola in Waiting for Superman – in Alice nella città al festival di Roma dello scorso anno – che fungeva da punto di partenza per una denuncia dell’istituzione scolastica. Così, anche nel suo lavoro più recente, From the sky down, presentato alla VI edizione Festival di Roma nella sezione Extra, Guggenheim prosegue il suo discorso e la sua metodologia di lavoro: per riflettere sull’Europa di fine Novecento e su ciò che comportò la caduta del muro di Berlino e l’evoluzione di una delle città tra le più vive ed eclettiche del nuovo millennio, il regista ha ripercorso la nascita dell’album Acthung baby degli U2. La band irlandese festeggia quest’anno il ventennale della realizzazione di quell’album che al’epoca segnò profondamente la vita del gruppo ed ebbe un duro e difficile percorso per essere portato a termine, un percorso che Guggenheim riesce a mostrare, senza tralasciare nulla e riuscendo a costruire nel complesso un film ricco di riflessioni, di musica e di attenzione per una narrazione che non necessariamente segue un andamento lineare. Negli anni ’80, da anonimo gruppo di studenti dublinesi, Bono e i suoi 3 compagni di liceo si trasformano in una rock band apprezzata in tutto il mondo tanto da essere subito catapultata negli Stati Uniti dove i 4 ragazzi arrivano impreparati all’impatto con una realtà che non erano in grado di gestire, come afferma lo stesso Bono: “Dopo ogni concerto venivamo assaliti da tristezza e dolore perché non eravamo stati all’altezza”. Da quel viaggio nacquero album poco riusciti fino a quando al ritorno a Dublino capirono cosa era importante fare, quale fosse l’idea di mondo che li univa e che volevano condividere con il mondo..
Così, dopo Bruce Springsteen, Bob Marley, i Sigur Ros e Fabrizio De Andrè in Extra arrivano la voce, le parole, il suono della chitarra di un musicista e di un gruppo leggendario in grado di far nascere canzoni non solo semplicemente belle, ma anche dal forte impatto sociale e spesso politicamente rilevanti (proprio qui al festival in The Lady di Luc Besson abbiamo riascoltato Walk on, scritta per la leader birmana Aung San Suu Kyi), passando da One sull’idea della diversità anche sessuale, ad Acrobat e Even better than the real thing, solo per citare le liriche più significative. Allo stesso tempo gli U2 – non va dimenticato – sono una band che ha aggiunto un tassello importante alla storia del rock. Sotto questo punto di vista il film ripropone perciò alcuni topoi delle rappresentazioni cinematografiche che usualmente vengono proposte per ritrarre delle band musicali: i conflitti interni, la doppiezza tra palco e fuori palco, la crisi inevitabile e la rinascita. Così come in ogni fotogramma del film c’è un ricordo della vita della band, una malinconica solitudine, un momento di grande esaltazione, senza dimenticare naturalmente l’impegno educativo di risveglio delle coscienze di cui gli U2 si sono fatti carico. C’è tutto questo, ma in senso più ampio sarebbe preferibile e anche più significativo leggere From the sky down come un discorso che, partendo dal percorso professionale della rock band, si allarga a quello della memoria storica della Berlino post-unitaria.