Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
È di questi giorni la notizia che American Horror Story concorrerà agli Emmy come migliore serie drammatica e non come miniserie, replicando quanto già successo all’ultima edizione dei Golden Globe. Questo perché da quando negli scorsi mesi Ryan Murphy, autore insieme a Brad Falchuck, ha annunciato che la seconda stagione avrà una nuova storyline, nuovi personaggi (anche se verrà riutilizzato parte del cast dei comprimari e Jessica Lange tornerà nelle vesti di protagonista assoluta della serie) e una nuova location, la serie rientrerà nei canoni antologici, ovvero diventerà un contenitore di più storie, così come lo storico Hallmark Hall of Fame Presentation, che, in onda dal 1951, risulta essere uno dei programmi più longevi della storia della televisione, o i più recenti e affini Masters of Horror e Masters of Science Fiction. In realtà, più che una scelta di un nuovo “format”, questa novità suona come un escamotage per rientrare in una categoria dove è più facile ottenere premi.
Non a caso la mossa viene fatta proprio nell’anno in cui la HBO, che fa sempre la parte del leone in tal senso, presenta solamente due film per la televisione – Game Change di Jay Roach, interpretato da Julianne Moore, Woody Harrelson e Ed Harris, incentrata sul “teatrino” di Sarah Palin durante la campagna elettorale del 2008, e Hemingway & Gellhorn di Philip Kaufman, con Clive Owen e Nicole Kidman, sul rapporto fra l’immortale scrittore di Fiesta e la sua terza moglie, la reporter di guerra Martha Gellhorn. Nella categoria drammatica la serie di Murphy e Falchuck avrebbe dovuto vedersela con i sempre vincenti e più papabili Mad Men, Breaking Bad, Boardwalk Empire e le new entry Homeland, Boss e Luck. Considerato che il genere horror non è poi tanto amato dalla vetusta Academy, la FX – che trasmette la serie negli States – ha ritenuto dunque, saggiamente, di presentarsi nell’altra sezione.
Di qualche giorno prima, invece, è la notizia che la seconda stagione di Downton Abbey farà il contrario, rientrerà nella sezione drama series invece che tra le miniserie, dove aveva concorso e vinto lo scorso anno. In fondo la storia si ripete: era accaduto anche ad Upstairs Downstairs (lo scorso anno oggetto di un sequel), la serie anni ’70 cui quella di Julian Fellowes si ispira. Sono meccanismi studiati a tavolino dai network, furbate che avvengono da sempre (nel 2006 ci furono i casi eclatanti di Thief e Sleeper Cell), per dividersi quanto più possibile la gustosa fetta del premio più prestigioso della televisione americana, ma che sono anche indicative di un mercato sempre più vasto e variegato e non più divisibile in categorie nette come in passato. In fondo, prendendo proprio l’esempio di Downton Abbey, ci si ritrova di fronte ad un prodotto molto ibrido. La storia della famiglia Crawley, ambientata negli anni a cavallo della Prima Guerra mondiale, possiede tutta l’estetica e il meccanismo romanzesco della miniserie più classica, ma allo stesso tempo utilizza gli schemi narrativi del serial, ovvero una storia che si dipana nel tempo, di episodio in episodio, insieme a piccole sottostorie che si auto-concludono alla fine di ciascuno di essi. Ma ci sarebbe da riflettere anche sulla categoria della miniserie poliziesca Luther che possiede, ad esempio, la stessa struttura della precedente, ma che raggiunge ogni stagione un numero talmente esiguo di episodi (fra i sei e i quattro) da essere premiata nella stessa categoria di American Horror Story. La britannica Luther, trasmessa in USA da BBC America, è in fondo debitrice della formula del romanzo in serie appartenente al genere, contraddistinto da un investigatore o poliziotto che di puntata in puntata o di libro in libro investiga su un nuovo crimine (Agatha Christie docet!). Apprezzatissimi i vari Wallander e Sherlock (riadattamento in chiave contemporanea dei romanzi di Arthur Conan Doyle), tutti format che riprendono i loro schemi dai testi da cui derivano, trovandovi anche la loro radice seriale, come già avveniva negli anni della Golden Age televisiva ad esempio con Rumpole of the Bailey (sui casi dell’avvocato Horace Rumpole, dai romanzi di John Mortimer, editi in Italia da Sellerio). C’è da considerare anche l’ibridazione fra la serie e la miniserie da un punto di vista estetico: a parte sporadici casi che negli Stati Uniti hanno riguardato soprattutto il genere western, la serialità televisiva è sempre stata molto poco oggetto di vicende in costume e/o storiche, restando legata per lo più al contemporaneo. La ragione è facile da spiegare: le serie in costume costano molto di più.
Oggi in tal senso si registra un cambiamento, negli ultimi anni, infatti, le serie in costume sono diventate quasi la regola e non l’eccezione, e puntano sempre di più a una confezione ricca e sapiente. Ce lo ha insegnato la AMC con Mad Man o Showtime con The Tudors e tutti li hanno seguiti a ruota, in particolare la HBO che con Boardwalk Empire fa un discorso sia storico che sociologico con la storia romanzata della mafia di Atlantic City e risulta essere uno dei prodotti seriali più cinematografici degli ultimi anni. Prima di questi episodi, la “Storia” era sempre stata dominio della miniserie, che in un numero limitato di puntate sintetizzava vastissime epopee di decenni di eventi, come accadeva in prodotti degli anni ’70 del calibro di Le sei mogli di Enrico VIII o Elizabeth I (con una crudelissima Glenda Jackson). Eppure un altro fenomeno determina il cambiamento oggi: le serie americane imitano sempre di più quelle inglesi (o più semplicemente le distribuiscono) producendo sempre meno episodi a ogni stagione, sia per motivi di costi che per accaparrarsi il pubblico con storie e narrazioni sì lunghe, ma senza quella frequenza episodica che contraddistingueva la formula classica della stagione (settembre-maggio). Se questa tradizione rimane immutata con alcune produzioni dei canali generalisti americani e con le sitcom, i canali via cavo invece, riducendo i numeri di episodi e di stagioni, puntano a una qualità più alta cercando di immaginare una fine naturale e non forzata dal possibile calo di ascolti.