Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
In quel vago candore dello scandire del tempo, la giovinezza non può che essere un dolce ricordo soltanto quando sono arrivate le pieghe e i vagheggiamenti della vecchiaia. E come l’eroina di un romanzo di Jane Austen, Felicity Porter è una saccente ragazza dalla solida morale che conosce bene quello che è giusto e quello che è sbagliato, ma è eternamente combattuta fra la ragione e il sentimento di quell’età che preclude la saggezza, forse arrivata sotto altre forme. Felicity, la serie che carpisce da Jane Austen, oltre al carattere della protagonista, anche gli schemi narrativi e le dinamiche che intercorrono fra i personaggi, che – invece di prendere vita fra i giardini di qualche dimora di campagna britannica – la prendono fra le aule e le strade della Grande Mela. Questo perché il personaggio di Felicity, invece di una giovin pulzella dall’intelligenza arguta nell’Inghilterra del tardo Settecento – quando alle donne era “proibito” metterla a frutto – è un’universitaria californiana trasferitasi a New York per studiare in un luogo e in un tempo in cui è necessario ostentare arguzia anche quando non la si possiede. Come una giovane e accorata Marianne Dashwood, la riccia diciottenne è divisa fra l’uomo che anela e quello da cui è anelata. E, come nei canoni austeniani, il primo gentiluomo si rivela troppo preso da se stesso, mentre è il secondo a possedere la maturità dell’altruismo affettivo. Per il primo, la giovane si è anche trasferita all’altro capo degli Stati Uniti abbandonando l’ammissione a Stanford alla facoltà di Medicina per studiare arte. Sullo sfondo, l’amicizia e la quotidianità della vita newyorkese dei tardi anni ’90.
Prima di Alias e Lost, J.J. Abrams, insieme a Matt Reeves (regista di Cloverfield e Blood Story), aveva realizzato una serie che ha molto poco a che fare con i suoi lavori successivi. Felicity, prodotta da Ron Howard e Brian Grazer e trasmessa negli States da WB (l’attuale CW), affronta infatti i beati anni del castigo del periodo universitario; quel momento in cui le speranze per il proprio futuro e quel passaggio, in qualche modo definitivo, verso la maturità sono determinanti per il carattere di un individuo. Così almeno dovrebbe essere. Abrams e Reeves spingono il pedale sulla costruzione dei rapporti umani, sul processo di maturazione interiore della protagonista, che trova due chiavi di lettura; la prima legata alla registrazione delle audiocassette (esistevano ancora appena 14 anni fa!) che Felicity manda a una sua amica, alla quale racconta la sua vita a New York, espediente di didascalica analisi, a mo’ di flusso di coscienza in voice over e voice off alla conclusione di ogni episodio (una formula introspettiva, quella del flusso di coscienza, adottata spesso nei telefilm di quegli anni, in Ancora una volta, ad esempio, si utilizzava la tecnica della falsa intervista); mentre la seconda di natura onirica esplicitata in un episodio speciale in bianco e nero della seconda stagione che omaggia il classico telefilm degli anni ’60 Ai confini della realtà (di cui lo stesso Reeves dovrebbe dirigere la versione cinematografica di prossima produzione). La scatola metaforica che in quell’episodio imprigiona Felicity rappresenta la sua emotività, le sue paure e insicurezze, che la fanno essere, quanto ad esperienze, sempre una spanna indietro rispetto alle sue compagne, come la cartina di tornasole della perdita della verginità, a lungo procrastinata – che ad esempio nei romanzi della Austen si traduce con un matrimonio tardivo – o l’evoluzione del personaggio stesso che compie un percorso inverso, più maturo, più diventa insicuro circa le scelte della vita e più diventa umano.
A voler parafrasare un altro classico della letteratura inglese, stavolta contemporaneo, Hotel du Lac (edito da Neri Pozza e alla base di un apprezzato film per la tv) di Anita Brookner, la produzione televisiva Felicity è un racconto realizzato per un pubblico di virtuosi dove la nostra protagonista tartaruga alla fine l’ha vinta sui personaggi lepre. Perché nei romanzi, e nei telefilm, “è la ragazza senza pretese, con il muso da topo, quella che conquista il protagonista, mentre la tentatrice altezzosa, con la quale lui ha avuto una tempestosa relazione, si ritira scornata dalla mischia per non ricomparire mai più. È la tartaruga a vincere ogni volta. È una menzogna, naturalmente… Le lepri non hanno tempo per leggere, sono troppo impegnate a vincere la gara”. Questo accadeva alle eroine della Austen e alla nostra Felicity Porter. Ed è forse un caso che Keri Russell, protagonista del telefilm con il quale fu gratificata con un Golden Globe, abbia appena concluso le riprese di Austenland, pellicola nella quale interpreta una giovane ossessionata dalla produzione BBC di Orgoglio e pregiudizio alla ricerca del perfetto gentiluomo?