Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
The Help ha ricevuto 4 nomination agli Oscar, ha incassato quasi 200 milioni di dollari solo negli Stati Uniti ed è un film sui diritti civili di quelli come non se ne facevano più da anni. Ma nella cultura popolare è stata la televisione a raccontare su ampia scala per la prima volta l’identità degli americani di origine africana. Fino a quel momento il cinema aveva realizzato solo una manciata di pellicole indipendenti e dai numeri commerciali non troppo alti, certo comunque notevoli come Ragazzo la tua pelle scotta di Gordon Parks (1969) o Per salire più in basso di strong>Martin Ritt (1970). Sidney Poitier era diventato una star; rimanevano però dei casi isolati ed episodici, eccezioni in uno star system e in un sistema produttivo ben lontani dall’accettare una cultura di origine africana. Radici cambiò le cose. Nessuno credeva che avrebbe avuto successo tanto che, la prima volta che fu trasmessa, la miniserie venne programmata tutti i giorni in un’unica settimana. Mai previsione fu più errata: l’opera divenne in pochissimo tempo un fenomeno culturale visto in tutto il mondo e studiato in chiave sociologica per l’impatto che ebbe sugli americani e non solo. Ma Radici è stato oltre ogni ragionevole dubbio uno degli eventi più importanti della storia della televisione americana. Perché? Per prima cosa perché ha definito nel 1977 i canoni e gli schemi della miniserie statunitense, fino a quel momento baluardo produttivo dell’Inghilterra. Così, considerato il successo che quelle produzioni avevano sul pubblico americano, i network decisero di realizzarne di proprie con un ampio dispendio economico e di forze artistiche. Sono gli anni de Il ricco e il povero, Olocausto, The Awakening Land, Venti di guerra, ecc., opere dal sapore storico ed epico la cui formula viene tuttora utilizzata (Mildred Pierce o The Pacific per esempio), anche se ne vengono realizzate molte di meno. In secondo luogo, la storia della famiglia Kinte, raccontata dal suo discendente Alex Haley, fu un vero fenomeno mediatico proprio per l’intreccio costruito fra la Storia e la condizione afro-americana, in una fase in cui i diritti civili erano stati finalmente acquisiti.
Radici e Radici – Le nuove generazioni, il seguito realizzato due anni più tardi, narra le vicende della famiglia di Haley dal lato materno (il ramo paterno della famiglia sarà invece al centro di un altro romanzo, Queen, sulla figura della nonna, poi anch’esso oggetto di miniserie) nell’arco di oltre duecento anni, a partire dalla vicenda dell’avo Kunta Kinte, rapito nel 1767 in Gambia dai negrieri e condotto ad Annapolis in Virginia per essere venduto come schiavo, fino ad arrivare alle ricerche, compiute sulla sua famiglia nel corso degli anni Sessanta e Settanta, che hanno condotto lo stesso Alex Haley a scrivere il libro che gli ha fatto guadagnare fama e un premio Pulitzer. La prima miniserie si sviluppa quindi dalla nascita in Africa di Kunta Kinte fino all’emancipazione del pronipote Tom Harvey negli anni immediatamente successivi la guerra civile; la seconda invece affronta la storia della famiglia nel difficile percorso dell’integrazione negli anni in cui non erano più schiavi. Haley, che è anche noto per essere stato l’autore dell’autobiografia di Malcolm X, sottolinea, proprio traendo spunto dalle idee di quest’ultimo, il concetto di un’identità sottratta attraverso la schiavitù. Persone che arrivavano dall’Africa, venivano private dei loro nomi e si trovavano costrette a prendere il cognome dalla piantagione in cui lavoravano. Un percorso di disumanizzazione, che avviene perciò nel suo connotato primario, ovvero la privazione del proprio nome e che la miniserie e il lavoro dell’autore sanciscono. Così, alla fine degli anni Settanta, un mezzo popolare come la televisione in qualche modo riafferma quella identità originariamente negata sottolineando e denunciando quello che è stato forse il più violento e grave peccato degli Stati Uniti d’America, la privazione della dignità di milioni di persone. Radici è un’opera monumentale della durata totale di oltre 26 ore, che ha il pregio di aver trattato per la prima volta sul piccolo schermo un tema così fondamentale nella cultura statunitense come la schiavitù, il razzismo e l’integrazione.
Ma, prima di tutto, Radici è una saga famigliare che ripercorre il tempo e la storia all’interno dei suoi eventi secondo i canoni del melodramma, racconta il privato e le vicissitudini, la lotta per l’affermazione attraverso personaggi ricchi di sfumature e straordinariamente combattivi, ritratti però con toni forse troppo epici e vagamente retorici. Per questo motivo forse a una visione odierna la serie non può non apparire datata nei suoi elementi narrativi, nei suoi meccanismi, nell’impronta dell’approccio ideologico, che risulta troppo scolastico. Il razzismo stesso non è affrontato in maniera troppo cruda e violenta, mentre resta positiva la descrizione dell’ambiguità dei sentimenti e dell’ipocrisia politica e sociale dei bianchi dell’epoca. Radici fu un grande successo, è diventato un cult, ha vinto premi ed è ricordato ancora oggi come uno degli eventi più importanti della storia della televisione. Perché in quel caso, il mezzo aveva compiuto un grande passo avanti: aveva fatto in qualche modo giustizia, aveva ammesso le colpe di una parte della popolazione e ricucito le radici di un’altra con la sua madre Africa.