Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Dopo oltre un anno, arriva finalmente anche in Italia (trasmessa da Rete 4 ogni domenica sera) Downton Abbey, la serie creata da Julian Fellowes, premio Oscar per Gosford Park, che segue quel medesimo sfondo sociale per raccontare un’Inghilterra che non esiste quasi più. Quella della nobiltà e delle magioni principesche dove padroni e servitù vivono sotto lo stesso tetto, ma divisi dalla linea sottile delle scale sociali. Un ritratto asciutto e ironico dell’aristocrazia inglese sullo sfondo dei cambiamenti dei tempi con i venti di guerra che si avvicinano, segnati dal gong dell’affondamento del Titanic, grande tragedia che dà proprio inizio alla nostra vicenda. La famiglia Crawley è infatti distrutta per la morte del cugino di Lord Grentham e suo erede. Così il titolo del casato è destinato ora a passare ad un parente ancora più lontano, un giovane avvocato di provincia con idee democratiche. Il Lord attuale, Robert Crawley e sua moglie Cora, hanno tre figlie femmine che non possono ereditare il titolo e per un disguido legale neppure le proprietà famigliari. Scatta così un meccanismo di insidie e gelosie per l’ansia di voler preservare l’immensa proprietà terriera, i titoli e soprattutto la lussuosa dimora Downton Abbey. Una galleria di personaggi appartenenti a tutte le variazioni delle cromature psicologiche, che costruiscono il ritratto di un mondo complesso e fitto di compromessi sullo sfondo di una guerra che incombe.
La decadenza dell’aristocrazia, la predominanza della borghesia e la presa di coscienza delle classi subalterne, l’Inghilterra georgiana come culla della trasformazione del mondo Occidentale era stata già raccontata brillantemente in miniserie di grande lignaggio televisivo come Su e giù per le scale (il cui confronto con il sequel, Upstairs Downstairs, realizzato quest’anno a distanza di quarant’anni è stato ovvio, specialmente nei meccanismi fra nobiltà e servitù), e Ritorno a Brideshead, ma Julian Fellowes fa un discorso narrativo che attinge a piene mani da quei lavori, e ricrea un mondo fatto di interni lussureggianti tessendo una trama di grande armonia estetica e introspettiva. Se si può inserire il concetto di autorialità all’interno di un prodotto seriale è proprio questo il caso perché Fellowes è consapevole di riprendere, con una piena visione narrativa, il bagaglio culturale di una Nazione intera, attraverso la letteratura, la televisione e il cinema, ma soprattutto attraverso la propria Storia, gli stravolgimenti sociali. L’autore costruisce qualcosa che in realtà è già stato ampiamente ribadito, ma diviene meccanismo di riaffermazione e una mappa sociale che racconta qualcosa che in fondo non è mai cambiato sul serio. Le generazioni nuove lottano per il cambiamento, ma sono sempre quelle vecchie che tirano le file con crudeltà reazionaria. E in questo il mondo non sembra molto cambiato. Maggie Smith, nel ruolo dell’anziana e dispotica Lady Crawley, donna che mal sopporta tutti, anche le idee progressiste del figlio, gestisce tutto come un generale auspicando ad idee che persino nel lontano 1912 apparivano datate, gestisce il suo regno come una dispotica Elisabetta II, ovvero credendo che la nobiltà abbia ancora un valore che non sia quello di un soprammobile. Downton Abbey con la sua schiera di abitanti è la miniatura di un’Inghilterra che si prepara alla fine del potere coloniale, al periodo di forti restrizioni economiche che avrebbero definito gli anni successivi alle due guerre mondiali. Fellowes racconta una rivoluzione silenziosa che si consuma all’interno di case sontuose, ma decadenti, e situazioni che passano inosservate sullo sfondo di eventi ben più eclatanti. La serie è stata acclamata dalla critica e dal pubblico come il miglior prodotto televisivo dell’anno e ai premi Emmy ha persino sbaragliato la superfavorita e notevole Mildred Pierce vincendo ben sei statuette e togliendo così per la prima volta dopo anni e anni lo scettro alla HBO. Con un cast spettacolare, non solo per nomi come Maggie Smith, Hugh Bonneville ed Elizabeth McGovern, che tracciano la quintessenza della nobiltà agli antipodi, ma anche per gli altri interpreti meno popolari, tutti perfettamente in parte. A dimostrazione che la classe non solo non è acqua ma si nasconde sotto la patina dei broccati, delle fini porcellane, del cicaleccio da salotto.