Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Negli ultimi mesi la sua popolarità è ritornata in auge di nuovo sul piccolo schermo proprio grazie al ruolo del Papa Rodrigo Borgia nella serie della Showtime, The Borgias. Ma non è stato certo il cinema a imporre la figura dinoccolata ed elegante di Jeremy Irons al grande pubblico, bensì proprio la televisione, quando nel lontano 1981 si impose nelle vesti del pittore Charles Ryder nella miniserie di undici puntate Ritorno a Brideshead (dalla prossima settimana in replica sul canale satellitare Diva Universal). Quando Charles Sturridge e Michael Lindsay-Hogg diressero su sceneggiatura dello straordinario scrittore John Mortimer (padre di Emily), l’adattamento del romanzo più controverso di Evelyn Waugh non credevano di realizzare una pietra miliare della mini-serialità. La storia della decadenza della nobile famiglia Flyte, nell’Inghilterra a cavallo fra le due guerre mondiali, vista attraverso l’occhio ormai disincantato di un maturo Charles Ryder, amico di famiglia, in passato ammaliato dalle anomale figure di questa dinastia cattolica e in particolare diviso fra l’amore di Sebastian, l’omosessuale, alcolizzato e la più sensibile figura della famiglia, vittima delle sotterranee angherie materne (pia donna distruttiva), e la sorella Julia, la più moderna che poi si rivelerà la più bigotta di tutte, è stata presa a modello da altri scrittori e cineasti per narrare quel mondo ormai decaduto, citato anche da Richard Yates in tutt’altro contesto nel suo capolavoro letterario Revolutionary Road.
A tratti la serie appare datata, ma è ineccepibile il suo valore artistico, che attraverso una struttura estremamente lirica ricorda un’estetica vagamente viscontiana e non a caso i Flyte sono molto simili ai Buddenbrook di Thomas Mann. In Ritorno a Brideshead la tensione sessuale fra i due protagonisti maschili è palpabile, ma sviluppata attraverso un tono discreto, non eversivo. La sceneggiatura di Mortimer predilige sviluppare più la linea lirica e decadente del romanzo (capolavoro imperfetto) che i suoi sprazzi umoristici, anche se i flashback e l’uso della voce fuori campo vengono fedelmente rispettati. È in fondo l’educazione sentimentale di Charles Ryder che vive e soffre forse per due amori – quello per Julia e quello per Sebastian – che vengono distrutti per la stessa ragione (la rigidità di una fede religiosa estremamente tormentata), ma con modalità differenti. La figura del solitario Charles (orfano di madre e con un padre anaffettivo), che si confronta con questa famiglia e trova una nuova infanzia, non si allontana dagli archetipi di un racconto di formazione sviluppato attraverso i temi dell’ascetismo e della carnalità e intrecciati con la realtà dei tempi storici e la decadenza dell’arte classica, in un tripudio filosofico di fede e ateismo che parimenti rappresentano l’arcaico e il nuovo.
Romanticismo, infanzia e innocenza si intrecciano con grande sensibilità, e il desiderio e la sessualità sono sussurrati e non ostentati per sottolineare l’impeto di una generazione castrata. Il tema è la memoria: “L’unica cosa certa che possediamo è il nostro passato”, dice Charles. L’adattamento che ne fa John Mortimer supera il valore e i limiti del romanzo, anche se in compenso perde i toni ironici e comici (strano tra l’altro per un adattamento inglese) come abbiamo detto. Nonostante ciò, però, rispetto al mediocre e inutile film di Julian Jarrold del 2008, la miniserie resta più fedele al romanzo nella sua essenza che si concentra in chiave etica maggiormente sull’amicizia virile che sul rapporto eterosessuale (in entrambi i mezzi la parte più debole della vicenda, anche se rinforza di concetto la prima). Due vicende separate nettamente sulla linea temporale, che banalmente nella versione cinematografica vengono mescolate per dare più risalto alla seconda, tradendo così in toto la natura della storia. Paradossale come il cinema faccia della censura gretta nel 2008, mentre la miniserie del lontano 1981 costruisce i rapporti con una delicatezza straordinaria, rendendolo il risultato finale un capolavoro di ombre e ambiguità. Quello di Sebastian è un dolore sfuggente e impalpabile annebbiato nei fumi dell’alcol. Per lui non ci saranno speranze, così come per la perdita dell’innocenza, della giovinezza e della purezza di Charles. Toni e introspezioni che rendono Ritorno a Brideshead un capolavoro di universale bellezza, nonostante la voce fuori campo sia la sua grandiosità e il suo limite. Sia il romanzo che la miniserie ITV posseggono una struttura imperfetta che li rendono ancora più potenti nella loro crudele descrizione di un mondo. I personaggi cinici degli adulti, dei padri e della madre, costruiti attraverso sguardi di sottecchi e frasi lasciate a metà, in particolare la madre di Sebastian, donna di imperscrutabile crudeltà, rendono questo prodotto il manifesto politico e sociale della fine di un mondo. Se parliamo invece del cast allora stiamo parlando di un master della recitazione. Infatti oltre ad Irons, ci sono nomi del calibro di Laurence Olivier, John Gielgud e l’icona chapliniana Claire Bloom, ma su tutti dominano i nomi meno popolari, quello di Anthony Andrews, un Sebastian di sobria asciuttezza e Diana Quick, una Julia di dolorosa bellezza. Una solida lezione di come fare cinema attraverso la televisione.