Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Cosa c’è di più americano della famiglia Kennedy con i loro scandali, le loro donne (le proprie madri, le proprie mogli, le proprie amanti), il loro potere e le loro morti? Negli anni, il mito di questa famiglia di origine irlandese ha alimentato un buon numero di sceneggiati, di film per la televisione, che mai hanno lasciato vacillare quel mito, di cui il popolo di John Fitzgerald Kennedy e di Robert Francis Kennedy si è nutrito vampirescamente, condendo il piatto con una buona dose di retorica. Non c’è niente di meglio infatti di sangue, sesso e soldi per la base narrativa della fiction, prestante erede del feuilleton, arcaico schema della letteratura d’appendice. Se non fossero morti come sono morti, Jack e Bobby probabilmente sarebbero finiti criticati come Robert McNamara o Lyndon Johnson o peggio ancora come Richard Nixon. Ma sono morti. Ammazzati. Nell’espletamento del loro lavoro. Perché, in fondo, è stato quel sangue il dazio che ha concesso loro l’immortalità, cha ha lavato i loro misfatti, ha cancellato i fallimenti politici: la baia dei porci, il maccartismo (Bobby fu il braccio destro di McCarthy!), etc. In fondo J.F.K. è stato un presidente mediocre dal punto di vista pratico, quasi sicuramente non sarebbe stato rieletto nel ‘64; a suo favore però un punto importante: essere diventato l’icona dell’American Dream, aver promosso le speranze in un popolo che credeva in lui attraverso lo scossone dei diritti civili. In pratica la sua immagine e la sua morte, come quella del fratello, hanno contribuito più del loro operato al cambiamento, alla libertà e alla ribellione di quegli anni. Prima di lasciare un pesante fardello: la guerra del Vietnam. Risultato dietro queste figure: retorica (tanta) e contraddizioni (molte).
E, come in un ciclo di eterno ritorno, anche quest’anno è stata la volta di una nuova miniserie, non priva di polemiche perché da un lato rifiutata dal canale che l’aveva commissionata, History Channel (trasmesso invece dal corrispettivo italiano), che ha addotto una scarsa veridicità storica del prodotto finito, dall’altro dalla stessa famiglia Kennedy, che la considera calunniosa. Perché pareva, almeno sulla carta, che questa produzione messa in cantiere da Jon Cassar, autore della serie 24, fosse propensa a trovare un aspetto critico, poco incline a mistificare il ricordo di quel 22 novembre 1963 e di quel 6 giugno 1968, in cui i due principi americani persero la vita davanti alle loro mogli e al loro Paese, in diretta tv; Jackie e Ethel, fedeli e ammirate, nonché borghesemente consapevoli dei tradimenti subiti e custodi, insieme a mamma Rose, degli scheletri di famiglia. Poco celebrativo insomma doveva essere il risultato. Cosa non del tutto vera, perché, in realtà, la miniserie non svela segreti che non si sapevano, anzi punta sulla ciclicità dei must biografici kennediani: i tradimenti alle mogli, sia papà che figli, la relazione di entrambi i pargoli con Marilyn Monroe, l’abuso di farmaci del presidente e sua moglie, l’iper-cattolicesimo di mamma Rose, le simpatie hitleriane di papà Joe, i contatti con la mafia di Chicago di questi, tramite Sinatra, per le elezioni presidenziali del 1960. Nulla di nuovo, anzi, il prodotto alla fine risulta giocare con gli stereotipi più banali dello sceneggiato storico, imbrigliato totalmente nel meccanismo del romance, che a tratti si rivela persino ingenuo e datato rispetto alla maggiore accuratezza storica di un prodotto televisivo contemporaneo. Eppure ci sono altre storie dei Kennedy, meno conosciute, più interessanti, che forse meglio delineerebbero la loro natura, la loro etica borghese, sempre vittime di quell’arcano mistero della loro “maledizione”, quell’iconoclasta costruzione del proprio dolore, dietro il quale di nasconde un delirio di onnipotenza. Vicende rimaste nel limbo della produzione filmico-televisiva e che sarebbero invece piuttosto ghiotte per quel mondo: la vivacità sessuale di Rosemary, che papà Joe ha fatto lobotomizzare, di nascosto da mamma Rose, per placarle i “bollenti spiriti” (in questo caso solo accennata e trattato in toni patetici ed edulcorati), l’auto-esiliata Kick, l’abbandono della segretaria-amante morente dopo un incidente causato da Ted, etc., etc., etc (tralasciando tutti gli squallidi scandaletti nei quali a turno sono caduti tutti i gli eredi dell’ultima generazione). Tanto si è vociferato su tutto questo, quanto poco il cinema lo ha trattato (quanto potere hanno i Kennedy sui mass media?). Unico elemento di pregio del lavoro di Cassar è che in questo caso dei Kennedy non ne viene strenuamente esaltato il mito, nonostante la caduta nei soliti stereotipi. Ed alla fine il difetto maggiore del prodotto è la sua sciatteria narrativa, i buchi di sceneggiatura, la mancanza di linearità. Lascia, infatti, interdetti la notizia di pochi giorni fa, sulle dieci e improbabili nomination ottenute al premio Emmy, a cominciare da quella come miglior miniserie o quella conferita a Greg Kinnear nelle vesti di J.F.K., accettabili invece le performance di Barry Pepper e Tom Wilkinson (candidati). Katie Holmes, al contrario, si rivela la peggior Jackie della storia della televisione, poco aderente, nel suo caso non si ottiene neppure un mediocre lavoro d’imitazione, come farebbe banalmente una qualsiasi sua collega, lei si limita ad essere Katie Holmes con lo Chanel rosa. Come un abito nuovo che non aderisce al corpo, troppo squadrato, privato della morbidezza della sua vestibilità, The Kennedys ha lo stesso valore di una fodera cucita male da una sartina che imita maldestramente un abito di Coco Chanel. Il ritratto della politica kennediana e di quei giorni così tumultuosi della storie americana e le sue conseguenze si respirano senza dubbio meglio in un prodotto di “finzione” come Mad Men, che nella ricostruzione storica di un prodotto come questo. Perché, diciamo la verità, come genere cinematografico-televisivo il biopic storico, è il più artefatto e il meno credibile di tutti, forse perché deve fare i conti col nozionismo rompendo così la magia del patto con lo spettatore.