Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
La psicoterapeuta Dani Santino ha appena mollato il marito fedifrago quando accetta di prendere in cura la squadra di football della sua città. Ha bisogno di soldi per mantenere il suo stile di vita e i suoi due figli adolescenti. Per questo accetta di occuparsi di alcuni giocatori della squadra e in particolare del suo campione T.K. King. Ben presto, i successi terapeutici della donna la rendono nota in tutto l’ambiente sportivo, non solo nel football, così la sua rete di pazienti diventa sempre più ricca (in tutti i sensi). Ideata da Liz Kruger e Craig Shapiro sulle esperienze di Donna Dannenfelser, psicoterapeuta dei New York Jets, Terapia d’urto, in originale Necessary Roughness, è un dramedy realizzato da USA Network, che ha avuto un discreto ascolto di pubblico in patria (dove è in corso la seconda stagione) e che approda in questi mesi in Italia su Fox Life. La serie rientra perfettamente nei canoni del canale americano perché racconta in tono leggero ruoli e vite che si confrontano con le proprie realtà e i propri mestieri, alternando toni comici a toni più cupi, spesso ricadenti però in una melensaggine da manuale. Come vengono mescolati commedia e dramma, altrettanto viene mescolato il meccanismo di serie aperta e chiusa, dove alla storia principale della protagonista, della sua vita personale e del suo rapporto con la squadra e soprattutto con il quarterback T.K., si alterna in ogni episodio il caso di un nuovo paziente.
Sulla carta il meccanismo di questa tipologia di serialità funziona molto bene, sin dalla serie di maggior successo del canale nel 2002 con Monk, seguito in maniera altalenante da Burn Notice, Psych, The Starter Wife, Covert Affairs e altri, la rete ha cercato di costruire prodotti molto ben riconoscibili per un pubblico il più possibile trasversale. Purtroppo però a lungo andare il meccanismo dei prodotti di USA Network diventa ripetitivo e monotono perché non trova sviluppi narrativi né in un senso, la struttura della storia aperta, né nell’altro, i casi seguiti di volta in volta, che risultano poi sempre molto simili fra loro; un meccanismo ad esempio di cui hanno sofferto persino le ultime stagioni Monk. Ma lì ad esempio era il personaggio del detective fobico a tenere in piedi tutta la baracca, qui la protagonista soffre invece, proprio nella sceneggiatura, di una mancanza di caratterizzazione, se non quella della donna simpatica ma priva di attrattive psicologiche, come poi tutti gli altri personaggi, compreso il problematico e arrogante T.K.. Gli spunti narrativi che vertono sulla protagonista (interpretata da una discreta Callie Thorne, molto a sorpresa candidata per questo ruolo agli ultimi Golden Globe in una serie drammatica e certamente più incisiva nel ruolo di Sheila, moglie di un pompiere morto durante l’11settembre, in Rescue Me) poi restano sempre piuttosto blandi e si limitano alle schermaglie nel rapporto madre e figli adolescenti e alla tensione sessuale con l’allenatore della squadra (l’imbolsito Marc Blucas, ricordate il fidanzatino biondino di Buffy, l’ammazzavampiri?). Non manca qualche battuta divertente e certamente la parte comedy funziona un po’ meglio di quella dramedy (che in gergo potremmo dire che non si può guardare), ma alla fin fine quando si vogliono accontentare troppi palati si rischia di produrre una brodaglia insapore. E così Terapia d’urto si lascia guardare per noia.