Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Idris Elba è passato dall’altro lato della barricata (e dell’Oceano Atlantico). Dopo averlo amato sullo sfondo della periferia di Baltimora, nel cult poliziesco della HBO The Wire, dove vestiva i panni dello spacciatore Stringer Bell, è da un paio d’anni a questa parte John Luther nella serie Luther e tra una stagione e l’altra nutre anche un interesse amoroso per Laura Linney in The Big C. Luther è un thriller classico dove il detective protagonista combatte con l’assassino in uno scontro intellettuale fatto di duelli verbali. Un po’ Colombo e un po’ Dexter, il massiccio poliziotto dall’anima tormentata si trova imbrigliato nel consueto scontro fra il bene e il male e risolve i suoi casi ricorrendo alle armi “convenzionali” dell’inganno e della violenza (psicologica e fisica). Ma come è ormai usuale in molte serie inglesi poliziesche, anche in questa il detective-personaggio ingloba in maniera totale lo show (merito anche del gigante, in tutti i sensi, Idris Elba, meritatamente premiato con un Golden Globe lo scorso gennaio) sullo sfondo di storie private e pubbliche, dove la città è veicolo per un macrocosmo di infelicità umane, dove nessuno ha possibilità di redenzione. Tra periferie anonime, palazzoni fatiscenti, metropolitane zeppe e capannoni abbandonati, la città ha infatti in Luther la funzione di protagonista ed è lo scenario ideale per crimini evidenti ma al tempo stesso invisibili e spesso crudelmente gratuiti. In fondo, Luther si occupa di assassini che trattano l’omicidio come un gioco, una sfida da vincere, una dimostrazione della loro potenza e del loro ingegno e dunque, per lui, fermarli diventa una questione che va al di là della Legge, al di là delle regole (le cui linee di confine vengono abbondantemente valicate): è un’affermazione della propia supremazia e del proprio talento.
Interamente scritta da Neil Cross, Luther distrugge le convezioni schematiche di series e serial perché ne mescola i meccanismi sviluppando storie personali e indagini che diventano un guazzabuglio fra ciò che si sviluppa in crescendo lungo l’intero asse delle due stagioni e ciò che si chiude in ogni episodio. Una struttura che parte dall’indagine del protagonista sull’astrofisica Alice Morgan, sterminatrice di tutta la sua famiglia, sociopatica orgogliosa del suo atto e dalla personalità piuttosto contorta, il cui rapporto con il detective è quanto di più ambiguo la televisione possa aver mai generato. Prosegue poi con altre storie quantomeno inquietanti, che nei toni tesi e trucidi ricordano la tradizione inglese del thriller televisivo contemporaneo e metropolitano (pensiamo a Prime Suspect), che affonda le sue radici negli albori della storia della televisione mondiale (il classico intramontabile The Naked City di e con Jack Webb sviluppato sul noir cinematografico omonimo del 1948 diretto da Jules Dassin). Ma questa scelta narrativa così confusa non fa bene alla costruzione generale dell’opera che si rivela a volte monca e inconcludente specie nelle sottostorie e nello svolgimento dei singoli casi, oltre che nella decsrizione del rapporto fra quest’uomo, nevrotico, infelice e solo, che vorrebbe riconquistare sua moglie (ma lei se ne è andata con uno psicologo certamente più equilibrato di lui) e quest’altra donna (Alice) che nessuno vorrebbe come amica, tantomeno come avversaria. Un rapporto che rimane sul fondo nella seconda stagione (composta di soli quattro episodi e con una storyline principale intervallata di altri casi satelliti) di storie lente e non sempre funzionano, a volte per mancanza di ritmo, altre per mancanza di idee, anche se non mancano i colpi di scena e lo spettacolo garantito.