“Notte Bianca” a Firenze al cinema Odeon: Enrico Ghezzi e Pippo Delbono si son passati il testimone per una notte all’insegna della ricerca linguistica
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
03/05/10 – Come ormai è consuetudine da diversi anni, la sera di venerdì scorso Firenze è stata protagonista della Notte Bianca, in cui la città resta aperta fino all’alba tra musica in tutte le piazze, assaggi gastronomici e vari eventi culturali. Quest’anno ha avuto la sua parte anche il cinema con l’iniziativa organizzata dal cinema Odeon, ormai abituale salotto di eventi cinematografici fiorentini, che ha presentato una serata gratuita dedicata a Blob di Enrico Ghezzi e Marco Giusti (si sono viste le primissime puntate, risalenti al 1989) e, tra un frammento televisivo d’epoca e l’altro, alla proiezione di La paura di Pippo Delbono, passato al Festival di Locarno e attualmente raro esempio di lungometraggio realizzato solo tramite telefono cellulare.
Figura singolare nel panorama culturale italiano, d’interessi che svariano dal teatro alla musica alla fotografia, Delbono pareva piuttosto alieno a sperimentazioni linguistiche vincolate a nuovi media così massificati come il telefonino. Se il progetto del suo film, anche dopo la visione, continua a lasciarci sconcertati, d’altra parte è anche vero che di uno strumento così improvvisato e “buono per tutti” Delbono riesce a farne un uso sinceramente creativo e a conferirgli un inaspettato status di nuova frontiera documentaristica. Al cinema Odeon, La paura è stato presentato nella sua versione riversata in 35 mm dalla Cineteca di Bologna, e si rimane davvero stupefatti dalla buona resa d’immagine che un procedimento così rudimentale sia riuscito comunque a garantire. Certo, le riprese condotte da telefonino su trasmissioni televisive sono da nausea cronica e rasentano Youtube, ma quel che dà valore a tutta l’operazione è innanzitutto lo sguardo di Pippo Delbono, che assembla materiali dei più diversi, con pagine più ampie quasi ai limiti dell’episodio narrativo (e ovviamente più facili e didascaliche: si veda il funerale del ragazzo extracomunitario ucciso a Milano e il brano finale sull’ex-paziente manicomiale), mantenendo però una rara qualità di coerenza visiva. Sarebbe interessante sapere quante ore di girato ha accumulato Delbono prima di passare alla fase di montaggio, visto che gran parte di ciò che ha catturato non è ovviamente preordinato, ma viva realtà nel suo farsi e della più diversa natura (riprese di vetrine, di strade, diurne e notturne, percorsi sul proprio corpo mostrato senza pudore né compiacimenti “arty”). Per giungere a comporre un vero discorso filmico com’è riuscito a fare nella sua opera, o Delbono ha lavorato su qualche centinaio d’ore di girato, o ci troviamo di fronte a un genio che già a monte sapeva dove andare a cercare ciò che voleva narrare.
Rarissimo esempio di video arte che si trasforma in vero lungometraggio, che rasenta il documentario ma non lo incarna e si colloca nel solco di una pura “riflessione per immagini”, Delbono riconduce il cinema ai suoi elementi tecnici ed espressivi primigeni. Riducendo a zero il mezzo con i suoi orpelli (niente è più “povero” del telefono cellulare), Delbono dimostra che il montaggio, vero principio fondante di qualsiasi opera per immagini, è sufficiente e necessario per dare forma a un’idea di racconto filmico. Alle immagini e alla loro giustapposizione di senso in fase di montaggio Delbono si permette di aggiungere soltanto qualche enfatico commento musicale, qua e là troppo tendente al poeticismo a tutti i costi. Ma sul disorientamento culturale del nostro paese, sull’invasione degli oggetti e delle immagini, sulla “mostrificazione” dell’essere umano e della società civile italiana soprattutto quando è rappresentata, e sulla conseguente nostalgia per un’umanità priva di sovrastrutture culturali (il “pazzo” dell’ultimo brano), Delbono conduce un discorso pregnante, partecipato ed emozionante, capace di riassumere in poco più di 60 minuti d’immagini rubate col cellulare i fiumi di parole, ipocriti e didascalici, che tanta tv e pure tanto cinema italiano spende inutilmente nei nostri anni. Un’indiscutibile dimostrazione che quando c’è uno sguardo i mezzi non servono, a eterno monito dei nostri autori che si lamentano continuamente della povertà produttiva del nostro cinema.