La neve, la violenza del vento nell’inverno rigido vissuto da 4 partigiani sull’Appennino centrale, durante la Seconda guerra mondiale. Questi pochi elementi, con una voce che guida una riflessione sulla guerra e soprattutto sul potere della parola libertà, sono alla base del film I morti muoiono con la bocca aperta di Fabrizio Ferraro, presentato in concorso alla Festa del cinema di Roma.
“Dobbiamo iniziare ad ascoltarci”, “Non dobbiamo combattere per le parole anche se ci sembrano bellissime, non dobbiamo morire per una parola” e ancora “quando non rimane dentro neppure una parola è allora che i morti iniziano a parlare” riflette la voce narrante mentre lo spettatore cammina con i partigiani e sente (e non solo vede) lo stivale che sprofonda nella neve, percepisce la paura, la solitudine, il pericolo, il desiderio di calore umano, il piacere di una sigaretta sognata tutto il giorno e troppo pericolosa da accendere durante il cammino, il silenzio, in un’esperienza totalmente immersiva di visione e di profondo ascolto per lo spettatore.
Una narrazione che non è interessata a seguire una linea temporale o il didascalismo ma a generare un’emozione vera nello spettatore attento e desideroso di vivere un’esperienza filmica che non cerca la spettacolarizzazione a tutti i costi.
Ferraro, da studioso di filosofia del linguaggio qui prende a modello il cinema di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub soprattutto nel desiderio di rigenerare la memoria, di permettere alle immagini del film di costruire un discorso sul presente ma come risultato di un’elaborazione del passato. Nella nostra intervista l’autore sottolinea come il passato sia l’unica cosa che abbia valore nella nostra vita, visto che il presente non ha alcuna consistenza” e racconta bene l’asetticità del bianco scelto per il film e come quest’opera faccia parte di una serie di film e di riflessioni sulla memoria, sugli “indesiderati della storia”.
giovanna barreca