(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
04/05/09 – Finora The Story of the Closestool è parso l`unico film mandarino della selezione del Far East 11 a essere in linea con la tradizione cinematografica autoctona. Questo per via di un tipico racconto di campagna, ambientato nei primi anni Ottanta e girato con quella posatezza di toni che abbiamo imparato a riconoscere nel cinema “impegnato” del Paese di Mezzo. Ma forse si tratta solo di una patina: nel mettere al centro del racconto il desiderio da parte della protagonista di avere un bagno con acqua corrente infatti, il regista Xu Buming dà l`impressione di voler giocare sul registro del grottesco, sia pure nell`ambito di un contesto da Bildungsroman. L`aspirazione all`igiene in effetti altro non è che il segno della volontà di elevazione sociale, un sentimento tipicamente borghese su cui il film costruisce dell`ironia e allo stesso tempo però vi aderisce per partito preso, quasi come a suggerire: “guarda quanto eravamo poveri un tempo”. Ecco che alloraThe Story of the Closestool, più che alle amare e nostalgiche riflessioni di certi suoi conterranei (come Gu Changwei, autore di Peacock e di Li chun, presentato alla seconda Festa di Roma, nel 2007), pare piuttosto riconoscersi in certo bozzettismo, quel che da noi venne chiamato “neorealismo rosa”. In tale contesto allora fallisce il racconto della storia d`amore, che resta sullo sfondo ed anzi emerge solo nell`ultima parte più come risorsa per concludere il film che come effettiva necessità . E quell`excipit dunque, con il quale si suggerisce l`accettazione del proprio (mediocre) essere al mondo, sembra calato dall`alto e non frutto conclusivo e sofferto del percorso dei personaggi.
Ad affiancare Fish Story tra le migliori pellicole della presente edizione, da ieri c`è Love Exposure di Sono Sion, anch`esso giapponese. Anzi, probabilmente siamo di fronte al primo – e forse unico – capolavoro di questo festival, capace di reggere per ben quattro ore di durata senza cedimenti, ma con continue e spiazzanti evoluzioni narrative. Se poi non tutto torna con esattezza in una sceneggiatura abnorme, lo si può debitamente ricondurre ad una visione del mondo volutamente costruita sull`eccesso e sull`accumulazione inverosimile degli eventi raccontati. Non è il realismo che interessa a Sono Sion, quanto piuttosto il melodramma, con forti venature occidentalizzanti, fra Verdi e Visconti, a voler esagerare. Non per nulla,Love Exposure si sostanzia di una rilettura audace e violenta della cultura occidentale e in particolare della religione cattolica, riflettendo sul peccato, sul sacrificio e sul senso di colpa. Il percorso iniziale del protagonista nasce infatti dal desiderio insopprimibile di peccare, per poter ancora interagire con il padre (un prete cattolico!) e, allo stesso tempo, per ritrovare in lui la figura paterna sotto l`abito del servo del Signore. Ma il film è anche tipicamente giapponese, sia nello scegliere come protagonisti assoluti degli adolescenti, sia nel farli vestire e agire come dei personaggi da manga (la ragazza con la divisa della scuola, il ragazzo con le fattezze di un misterioso super-eroe donna!), sia nel cambiare improvvisamente registro, passando dal tragico al comico. La maschera, sia essa religiosa che laica, allora diventa la chiave di lettura di Love Exposure secondando e rinnovando dei modelli imperituri delle tradizioni drammatiche orientali e occidentali (dal travestimento plautino al teatro classico giapponese). In tutto questo, vi si riconosce alla fine un certo spirito alla Takashi Miike, in quel suo essere insieme nichilista e fagocitatore.
Si era parlato nei giorni scorsi dell`ascesa del thai action, a coprire in qualche modo il vuoto lasciato dal cinema di arti marziali hongkonghese; ed ecco che proprio ieri era in programmazione Ip Man di Wilson Yip, un tentativo quasi mortifero di ribadire la supremazia del kong fu. Mettendo in scena la vita del grande maestro di arti marziali, Ip Man, che ha annoverato tra i suoi allievi persino Bruce Lee, il regista hongkonghese Wilson Yip eroicizza l`uomo per farne il simbolo dell`orgoglio cinese anche nel momento più buio della sua storia recente, l`invasione giapponese del 1937. Qualcosa del genere accadeva anche in Fearless (2006) di Ronny Yu, dove però l`atto propagandistico passava solo attraverso una lunga serie di traversie del personaggio. Qui invece tutto è scontato: il Nostro è l`uomo perfetto, capace sempre di aiutare il prossimo, attento alle esigenze della petulante consorte e, naturalmente, imbattibile quando si tratta di menare le mani, tanto che nessuno è in grado di metterlo in difficoltà anche solo per un momento. Meglio a questo punto i muay thai movie visti in questi giorni, autoironici e artigianali, esattamente l`opposto rispetto alla seriosità e all`epica forzata di Ip Man. Nonostante ciò va detto, che al di là della crisi pluri-decennale, il cinema hongkonghese ha saputo difendersi molto bene in questo Far East 11, segnalandosi probabilmente come l`unica cinematografia presentata qui al festival che sia stata in grado di superare le aspettive in essa riposte.