Declinazioni di regime al Festival di Udine
(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
04/05/10 – In base a quel che s’è visto al Far East 12 c’è ben poco da rallegrarsi sullo stato di salute del più recente cinema cinese. Di fronte a un mercato in continua evoluzione (incassi in aumento, costante apertura di nuove sale cinematografiche, investimenti statali più corposi), la qualità del cinema commerciale mandarino sembra andare in una direzione inversamente proporzionale. Un esempio sin troppo impietoso è Sophie’s Revenge di Eva Jin, prodotto e interpretato dalla diva internazionale Zhang Ziyi. Questa commedia, realizzata con capitale sino-coreano, con attori cinesi, coreani e taiwanesi e con maestranze hongkonghesi e americane, è un melting pot globalizzato privo d’identità che scimmiotta screwball e sophisticated comedy americane e prodotti simili coreani, con inserti demenziali e sequenze in computer graphic. Un pasticcio di scopiazzature e riletture che pure, in patria, ha incassato tantissimo. Ambientato in una città in tutto simile a una New York innevata, Sophie’s Revenge è sì il sintomo della volontà edonistica della nuova borghesia cinese ma è allo stesso tempo il segnale preoccupante di un cinema dei “telefoni bianchi” che finge di non appartenere a nessuna realtà in particolare. All’opposto, per dispendio produttivo, si situa One Night in a Supermarket, esordio di Yang Qing, classe 1980, con un passato di videoclip e serie TV, ma il discorso non cambia. Tutto ambientato in una notte all’interno per l’appunto di un supermercato, il film, girato in digitale, accumula una gag demenziale dopo l’altra, costruisce una risibile storia d’amore e si perde in una aneddotica leggera e dimenticabile, fingendo tra l’altro che il mondo sia tutto lì, tra le merci in vendita (elemento che ha il sapore di un involontario quanto ingenuo elogio della Cina della new economy). Non va meglio con Wheat di He Ping, ambientato nientemeno che nel 260 a.C. Il film vorrebbe essere una riflessione sull’assurdità della guerra, ma finisce per essere un lavoro schizofrenico, rovinato da personaggi bozzettistici (insopportabile l’amicizia, virile e demenziale, tra i due guerrieri) e da una fotografia laccata e non funzionale alla storia.
Ma il 2009 è stato anche il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare e dunque, a lato di un cinema d’evasione, non potevano mancare dei film di aperta propaganda. È il caso di The Founding of a Republic di Huang Jianxin e Han Saping, ingessato e didattico omaggio alla rivoluzione comunista, con un Mao descritto come un santino a giocare in un prato verde insieme a due bambini, tanto per dirne una. Il film, grazie a un battage pubblicitario senza precedenti, è riuscito a incassare più di Titanic (e anche più di Avatar che, all’uopo, è stato frettolosamente ritirato dalle sale). Ma, per paradosso, gli input della propaganda e del regime passano con maggior forza in due film a basso costo: Quick, Quick, Slow e Invisible Killer. Nel primo, degli uomini perseguitati al tempo della Rivoluzione Culturale vogliono avere il loro momento di gloria organizzando un corpo di ballo per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi del 2008; nel secondo, un uomo e una donna sposata si conoscono via internet e instaurano una relazione con conseguenze nefaste soprattutto per la donna. Da un lato dunque ormai è facile condannare la Rivoluzione Culturale per fare un’apologia del presente (la visibilità delle Olimpiadi e la presunta ricchezza complessiva del Paese che fanno dimenticare ogni problema politico e sociale), dall’altro si condanna l’uso disinibito di internet (con un simbolismo grossolano: la donna che ha abusato della rete virtuale viene ritrovata intrappolata in una rete da pesca) e la recente vicenda di Google conferma che è in corso un pesante giro di vite. Comunque, potrebbero persino essere accettabile la propaganda e i film a tesi; bisogna saperli fare, però…in questo, Hollywood insegna.
Restano The Message, thriller poliziesco ambientato nel 1942, corretto, vagamente imbalsamato e in parte rovinato da certi effettini di computer graphic, ma soprattutto City of Life and Death, l’unico film di valore della selezione cinese al Far East 12. Il lungometraggio, diretto da Lu Chuan, ripercorre il drammatico episodio del massacro di Nanchino, avvenuto nel 1937 per opera dei giapponesi. Ma lo fa assumendo vari punti di vista e in particolare scegliendo un giapponese come protagonista. Ora, se la condanna è aperta nei confronti dell’Impero del Sol Levante, ciò avviene per piccoli passi, per sofferenze quotidiane e grazie a un realismo a tratti sconvolgente. Quel che in fondo risalta con maggior evidenza è la bestialità cui necessariamente conduce la guerra e, dunque, il discorso passa facilmente dal particolare al generale, dando al film una dignità e una potenza inusuali.