Anatomia di un flashback
(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
03/05/10 – Si è conclusa la dodicesima edizione del Far East Film con la vittoria del premio del pubblico per il coreano Castaway On The Moon di Lee Hey-jun, dramma surreale di solitudine e isolamento a poche bracciate dalla capitale Seoul. Nel complesso si è avuta la sensazione di una buona vitalità del festival, sia per l’azzeccata proposta di retrospettive-omaggio “laterali”, ma indispensabili per riempire dei tasselli mancanti della cinematografia dell’Estremo Oriente (sette film del cineasta hongkonghese Patrick Lung Kong, modello per i registi delle generazioni successive, e una selezione di film della casa di produzione Shintoho, extreme movie a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, anticipatori netti del filone “folle” del cinema giapponese, da Fukasaku a Miike), sia per l’aderenza capillare e organica che il Far East dimostra di avere sempre più con la città di Udine, qualità indispensabile per giocare positivamente sul doppio filo del locale e del globale. Si aggiunga che forse mai come quest’anno il Teatro Nuovo Giovanni da Udine è stato preso d’assalto da un pubblico tanto numeroso di appassionati…e allora tutto bene? Forse no.
L’impressione è che ci sia un appiattimento del gusto verso un tipo di prodotto dell’Estremo Oriente: popolare sì, ma anche eccessivo, schizofrenico, forzatamente ingenuo, pletorico, edonistico e mai problematico…Quest’anno la tendenza ci è parsa ancora più visibile che nelle scorse edizioni: il cinema commerciale proveniente da Cina, Giappone, Corea, ecc. non sembra in ottima salute e i selezionatori del festival paiono non curarsene troppo, tanto che quest’anno si sono ridotti ancor di più i contributi provenienti – diciamo così – dal cinema “d’autore”. Nella scorsa edizione, per esempio, erano stati mostrati al pubblico del festival due pellicole di un cineasta come Cao Baoming, il cui sguardo critico verso la Cina contemporanea aveva lasciato il segno; i film cinesi di quest’anno al contrario sono stati di una pochezza quasi sconcertante, oscillando tra l’evasività da “telefoni bianchi” (Sophie’s Revenge come capofila, seguito da commediole deboli quali One Night in Supermerkat e Quick, Quick Slow) e la rigidità della propaganda: a sessant’anni dalla fondazione della Repubblica Popolare cinese non poteva mancare un polpettone schematico come The Founding of a Republic, seguito a ruota dall’antinternettiano (e anti-googliano) Invisible Killer. E ricordiamo che nel corso degli anni il Far East è stato un importante “approdo” di film critici verso il regime cinese; ora pare tutto dimenticato e rimosso. Ma in generale pare di cogliere una debolezza complessiva del cinema popolare dell’Estremo Oriente (almeno di quello che si è visto qui); una debolezza, a nostro modo di vedere, soprattutto narrativa e che potremmo identificare, con delle evidenti forzature, con la “pletorica del flashback”.
Raramente in questi giorni ci è capitato di assistere a un film lineare che non avesse bisogno di rimandi continui al passato, per specificare caratteristiche e qualità dei personaggi. Si pensi all’ultimo film di Pang Ho-cheung, Dream Home: uno slasher movie geniale nelle motivazioni (l’ossessione per l’acquisto di una casa trasforma la protagonista in una killer spietata) quanto nella coreografia degli omicidi (di una violenza quasi insostenibile) che viene annacquato però da ripetuti flashback a interrompere la violenza, con lo scopo di motivare per filo e per segno la nascita e l’evoluzione del lato oscuro della protagonista. Sul corpo compatto da horror movie viene dunque innestata a forza una “protuberanza” melò del tutto fuori contesto. E non ci si venga a dire che l’accumulazione transgender è tipica del cinema orientale. Lo sappiamo benissimo e, ad esempio, ancor oggi abbiamo negli occhi la geniale schizofrenia di Love Exposure (visto alla scorsa edizione del Far East), melò viscontiano in un cotè adolescenziale, con tratti del miglior cinema demenziale. Insomma, ci vuole talento per affastellare temi su temi, toni su toni; talento che probabilmente manca anche all’altro regista hongkonghese Dante Lam, di cui l’anno scorso era passato The Beast Stalker: il suo nuovo film, Fire of Conscience, unisce action movie e melò, come da tradizione nel grande cinema d’azione di Hong Kong (John Woo insegna). Ma, al solito, intermezza la narrazione con pesanti e discutibili flashback e in più gira le scene d’azione sempre puntando sull’eccesso, sulla coazione a ripetere e mai sulla scrittura interna alla sequenza (elementi che invece John Woo e Johnnie To sanno maneggiare tutti insieme).
Si veda anche un film come Clash, “coatta” pellicola di arti marziali targata Vietnam. Anche qui il lato melodrammatico appesantisce la vicenda con inserti dalla drammaticità ingenua e schematica. Un’eccezione, quasi miracolosa a questo punto, viene dal giapponese Yoshihiro Nakamura che l’anno scorso con Fish Story aveva fatto gridare al capolavoro. Questo Golden Slumber (da una canzone dei Beatles) ripete la studiatissima costruzione a flashback, inserti, scarti, in cui tutti i personaggi della vicenda paiono condividere un unico destino e un unico obiettivo, ma perde quel quid filosofico e esistenziale di cui era sostanziato Fish Story. Ciò che resta è un meccanismo quasi perfetto, ma in fin dei conti un giochino. In ogni caso Golden Slumber tra i film dell’Estremo Oriente visti in questi giorni è parso l’unico a saper trattare con consapevolezza la questione della narrazione cinematografica e in particolare la strutturazione di un racconto non-lineare. Al contrario la “pletorica del flashback” è un segno di horror vacui, d’insicurezza narrativa e concettuale; la paura che l’idea, il soggetto, i personaggi non siano abbastanza forti, tanto da doverli arricchire con più elementi possibili. Non possiamo certo dire che tutto il cinema popolare di cui stiamo parlando soffra di questi difetti, anzi sicuramente non è così; speriamo perciò che l’anno prossimo i selezionatori del festival sappiano cogliere con maggior sottigliezza le mille sfumature di queste cinematografie. E speriamo che si riesca a vedere qualche film capace di leggere criticamente la società da cui proviene, perché questa è l’autentica mission del cinema.