Dal nostro inviato Silvio Grasselli
Ancora da Lisbona, ancora all’Indielisboa. In un’edizione spettrale, abitata da fantasmi del passato, funestata dagli incubi del presente, e naturalmente animata dalle ombre del cinema, due occhiuti lenzuoli hanno polarizzato l’attenzione del pubblico. Si tratta dei due trapassati protagonisti di Finisterrae, primo lungometraggio di Sergio Caballero, uno dei condirettori di Sonar, celebre festival “multi piattaforma” tra gli eventi di spicco della scena barcellonese. Il progetto del film – che nella sua versione cinematografica compiuta ha vinto al Festival di Rotterdam – è nato frammentario, senza storia, senza un “significato”. Poi Caballero ha deciso di raccogliere i pezzi già girati, di rifinire l’intorno e infine di scrivere una storia che li tenesse insieme. Quel che ne risulta è un road movie sui generis, surreale e surrealista, ironico, macabro, disperante: due freschi trapassati – che si agitano nel mondo come fosse il loro limbo – decidono di tentare un rientro nell’esistenza e iniziano così un viaggio sul cammino di Santiago, verso i leggendari confini del mondo dei vivi. I due protagonisti, coperti dalla caricatura di un sudario, si muovono in paesaggi ameni e desolati, sempre deserti, compiendo gesti estatici, spesso quasi rituali, sempre a metà tra epica e parodia.
Tra le molte cose discutibili, quella che meno lascia spazio a discussione è il raffinato lavoro di elaborazione visiva firmato da Eduard Grau, operatore e direttore della fotografia tra gli altri di Tom Ford e soprattutto di Albert Serra, più vicino riferimento cinematografico per questo film del tutto atipico. Che sia capolavoro o semplice prodotto della mano sapiente d’un copywriter militante, Finisterrae di certo costringe lo spettatore a spostarsi, a compiere un’eccezione alla regola dell’abitudine consunta, ad alienare occhi e mente verso un altrove non facile ma appagante.