Ascolta le interviste di RADIOCINEMA ai registi del film:
Un uomo, Marco, esce di galera per ricominciare una nuova vita, ma ad attenderlo c’è solo una casa vuota in un quartiere pieno di gente ma anch’esso vuoto di vita. È il Serpentone di cemento di Corviale, nell’estrema periferia romana. Un microcosmo di squallore e microcriminalità dimenticato dalla città borghese e benpensante; una specie di prigione in mezzo a un nulla immobile che contrasta, fino a sovrastarlo, ogni tentativo di redenzione. A Marco non resta che osservarla, quasi da lontano, dalla panchina su cui si è rimesso a spacciare, e da cui tutto gli appare con disperata chiarezza. Una sorta di caos calmo, verrebbe da dire, ma stavolta pronto ad esplodere in un vortice di insensata e annoiata violenza dove tutti gli equilibri si rimescolano solo per tornare sempre uguali a se stessi.
Non è una storia mai raccontata né una periferia mai vista, quella di Et in terra pax, film scritto e diretto a quattro mani dai giovani registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, il cui nome si deve a uno splendido movimento di Vivaldi che fa da contrappunto melodico alla disarmonica umanità rappresentata dai due registi. Ed è proprio questo classicismo, predominante anche nella costruzione drammatica, a dare alla narrazione la solida base su cui sviluppare la tragedia dei personaggi. In un’epoca in cui tutti invocano il neo-neorealismo come vessillo sotto cui celare la mancanza di mezzi materiali e artistici per trasfigurare il proprio mondo in maniera poetica, Et in terra pax ha il coraggio e il merito di fare l’esatto opposto. Si costruisce sì su topoi, su luoghi comuni dell’immaginario urbano, ma li esplora e li esalta al di là dello stereotipo, caricandoli così del patos necessario per dare smalto e universalità a una delle tante storie che potrebbero nascere da un crogiuolo di emarginazione sociale come il Serpentone. Come una brava tragedia, Et in terra pax è diviso in atti, comincia con un anfiteatro e finisce in una pira purificatrice. Alla funzione del coro suppliscono poi il montaggio, che preannuncia lo scatenarsi della violenza, e la struggente musica classica, portatrice del crescendo emotivo ancor più che di significati mistici. Il tutto accompagnato da una fotografia molto accurata in cui si accentua l’isolamento di ciascuno dei personaggi nel proprio mondo di frustrazioni ed angosce circondato solo da ombre. Figure sfocate, da cui solo ogni tanto emergono forme umane per poi ricadere nel nulla indefinito che tutto cancella e tutto inghiotte.
Un’idea semplice ma nitida, efficace, abbastanza potente e ben realizzata, che fa di Et in terra pax un buon film indipendente, non di quelli che usano l’appellativo per coprire le falle creative. Come ha spiegato alla stampa Gianluca Arcopinto (produttore dell’opera prima dei registi insieme a Simone Isola), si tratta di un film realizzato con un budget davvero irrisorio (intorno ai 100mila euro) grazie all’impegno e all’entusiasmo sia degli autori che del cast tecnico e artistico, pure giovane ma assolutamente professionale… Mai come questa volta, insomma, è proprio il caso di invocare pace in terra agli uomini di buona volontà.
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