Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Emidio Greco è scomparso il 22 dicembre scorso. Se n’è andato pressoché sotto silenzio, in linea con il suo percorso artistico, che si è svolto in mezzo a ripetute difficoltà e a lunghi intervalli. Formatosi a diretto contatto con gli sperimentalismi degli anni ’60, successivamente divenne un’autorità del Centro Sperimentale di Cinematografia, ritornando periodicamente alla regia. Dando una rapida scorsa alla sua breve filmografia (otto lungometraggi distesi su quasi quarant’anni) saltano agli occhi solo due titoli di una certa notorietà, entrambi trasposizioni di opere di Leonardo Sciascia: Una storia semplice (1991), tra gli ultimi film di Gian Maria Volonté, che raccolse un buon successo di pubblico e critica e numerosi premi, e Il consiglio d’Egitto (2002), opera erudita in cerca di raffinatezze inconsuete per il nostro cinema. Appartiene un po’ a questa categoria anche Ehrengard (1982), uno dei suoi film più dispersi e sfortunati, che fu girato con budget piuttosto limitato in sole cinque settimane. Una volta ultimato, il film passò al Festival di Venezia ma trovò una brevissima distribuzione solo nel 1986, per poi sparire nel nulla. Tanto che nel 2003 fu lo stesso Greco a riacquistarne i diritti e ad occuparsi di una sua seconda distribuzione nelle sale. Adesso facilmente reperibile in dvd per Ripley’s Video, il film porta su di sé i segni, filmici ed extrafilmici, dell’epoca in cui è stato concepito e girato.
Agli inizi degli anni ’80, infatti, un cineasta italiano che cercasse finanziamenti per un film tratto da un racconto di Karen Blixen poteva essere tranquillamente preso per pazzo. Vuoi perché trasporre opere letterarie di altri paesi non è pratica diffusissima nel nostro cinema, vuoi perché il gusto internazionale (anche deleterio, intendiamoci) iniziava a essere cacciato fuori dai nostri set, vuoi perché regnavano incontrastati solo i “cinecomici”, il rischio del ricovero coatto era altissimo. Al di là dei meriti e demeriti di Ehrengard, la scelta di Greco resta comunque coraggiosa per la sua epoca. E se da un lato il budget limitato fu sicuramente un ostacolo, dall’altro è impressionante come anche con fondi non principeschi il film riesca a essere addirittura calligrafico. Magari non è esattamente un pregio, ma d’altro canto dimostra la capacità di Greco di sfruttare al massimo le proprie risorse. A favore dell’autore, si può aggiungere che se di calligrafismo esasperatamente letterario si tratta, è pur vero che il racconto della Blixen evoca riflessioni non banali su arte e vita, seduzione e rappresentazione. Una sorta di conte philosophique cinico e beffardo, ambientato in una fiabesca Germania settecentesca (ricreata nel Padovano) su musiche di Mozart. Ehrengard così testimonia anche un certo gusto transeuropeo per sdilinquimenti letterari e scenografici che in quegli anni veniva affermandosi su tutto il continente, laddove la sensualità per la filologia visiva si abbinava spesso a riflessioni colte sui massimi sistemi. Discutibile quanto si vuole, ma un cinema altrettanto erudito, sia pure compiaciuto della propria stessa erudizione, è difficilmente rintracciabile in tutta la nostra produzione nazionale. Che poi si tratti o no di buon cinema, è questione di cui discutere a lungo. Di sicuro Ehrengard, per gli anni in cui fu prodotto, risulta un’opera di resistenza creativa. A fianco di un ottimo Jean-Pierre Cassel, troviamo l’ultima interpretazione di Lea Padovani, ex-stella dei nostri anni Cinquanta. Film da recuperare, quindi, quantomeno per ritrovare tracce di un cinema italiano che sapeva girare “cose diverse”.