Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Esce l’omaggio/epigono, si ripesca l’originale. E’ un’inevitabile mossa di recupero quella attuata da Cinekult, che in occasione dell’imminente uscita nelle sale italiane (il 17 gennaio prossimo) dell’attesissimo Django Unchained di Quentin Tarantino va a riproporre in dvd e blu-ray, dal 4 dicembre, Django di Sergio Corbucci, pietra miliare dello spaghetti-western e punto di riferimento internazionale per decine di apocrifi, remake, citazioni, riecheggiamenti. Per Tarantino si tratta di una delle sue consuete ossessioni cinefile, tanto che, prima di dedicarsi al suo film di prossima uscita, è già apparso come attore in Sukiyaki Western Django (2007) di Takashi Miike, remake in salsa giapponese presentato a suo tempo in concorso al Festival di Venezia. In epoca di exploitation selvaggia e intellettualistica su cinema pregresso, è bene ricordare che il film di Corbucci dette il via nel suo immediato futuro a un’exploitation più rozza ed elementare: quella prettamente commerciale, che vide mettere in cantiere decine di calchi di serie B, C, fino alla Z, a cui Franco Nero non prese mai parte. Fu realizzato un solo sequel ufficiale più di vent’anni dopo per la regia di Nello Rossati, unanimemente considerato pessimo e fuori tempo massimo. Rivisto oggi, il Django di Corbucci lascia ben emergere ciò che continua ad appassionare autori e spettatori odierni. S’intuisce bene, soprattutto, che cosa può aver catturato le tendenze ossessive di Tarantino. Da molti considerato un film-cerniera tra due fasi dello spaghetti-western, che da lì in poi si avvia verso toni assai cupi e violenze più esibite, in realtà Django può essere anche visto come una prima cristallizzazione manieristica di un modo di fare cinema (in soldoni, quello leoniano) già pesantemente manierato.
Sicuramente Tarantino e la sua generazione di autori-cinefili hanno trovato nel nostro cinema di genere di quegli anni un’inedita lettura della violenza. Esibita, mostrata, narrata, spesso compiaciuta, lontano anni luce dai western edulcorati a cui la classicità americana aveva abituato il suo pubblico, in cui non si vedono nemmeno i proiettili. Solo con Sam Peckinpah e Monte Hellman le cose cambieranno anche oltreoceano. Rispetto ai primi film di Leone, Corbucci rende più oscuro il suo protagonista solitario, che veste sempre di nero e si trascina dietro una misteriosa bara di ominosa presenza. Per compiere la propria vendetta, Django è disposto pure a sporcarsi con la realtà, prestandosi a tetri doppigiochi in mezzo a laide fazioni in conflitto. Corbucci adotta inoltre i tempi lunghi e i silenzi espressivi della retorica leoniana, ma stringendo fortemente sulla durata. Aiutato da una fotografia plumbea e monocorde (a detta di molti che lavorarono al film, totalmente casuale, poiché la produzione aveva solo tre settimane per girare e il clima fu pessimo per tutto il tempo), l’autore riesce nobilmente a fare di necessità virtù. Poche le location: i lunghi stalli nel saloon aumentano l’attesa dell’azione. Fango ovunque: mettiamo un bel catfight nell’acquitrino tra prostitute, a stimolare fantasie nell’universo asessuato del western. Franco Nero non brilla per espressività: Django sarà profondamente crepuscolare. Così facendo Corbucci confezionò un film a basso budget che raggranellò miliardi in tutta Europa, e lentamente si costruì un proprio culto. Tarantino ha già citato la tremenda scena dell’orecchio in Le iene. In Django Unchained, ci scommettiamo, sarà il turno delle mani spappolate.
Il trailer internazionale: