Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
Per buona parte del nuovo film di Lav Diaz, Century of Birthing in concorso in Orizzonti, si è avuto il forte sentore di assistere al film della crisi, a una sorta di pubblica seduta di auto-coscienza di uno dei più radicali e illuminanti maestri del cinema contemporaneo. Dopo aver vinto nel 2008 a Venezia il premio come miglior lungometraggio proprio nella sezione Orizzonti con lo straordinario Melancholia, il cineasta filippino torna alla Mostra con un film più appartato, più intimo. Melancholia infatti era una gigantesca e amarissima riflessione sul tragico destino delle Filippine, la radiografia esatta di un paese e di un popolo come raramente è capitato di vedere anche nelle più alte riflessioni cinematografiche degli ultimi anni. E, rispetto a quel capolavoro (e al suo precedente film, Death in the Land of Encantos, che ripercorreva i luoghi martoriati dello tsunami), Century of Birthing dà l’impressione di un sostanziale riflusso, di una apparente autoreferenzialità. Nel film scorrono più o meno parallele tre storie: la vicenda di un regista che non riesce a venire a capo del montaggio di un suo lavoro a cui lavora da circa tre anni, il percorso di una ex suora in cerca di emozioni e di relazioni con gli uomini e la tragica parabola di una ragazza che viene cacciata da una setta religiosa dopo essere stata violentata.
Come di consueto Lav Diaz lavora su tempi narrativi dilatati – Century of Birthing dura circa sei ore – e gioca sulle intime e mai evidenti relazioni tra i personaggi e le vicende che li riguardano. In questo caso però, per tutta la prima parte, emerge la figura del regista in crisi che non si può fare a meno di identificare con Diaz stesso. E naturalmente finiscono per prevalere riflessioni che vanno da un “non faccio film per i festival, li faccio per il cinema”, a dichiarazioni d’intenti che vedono nel cinema stesso l’unica ideologia possibile. Sull’altro versante vi è la critica – evidentemente sarcastica – della religione e delle sue ridicole proibizioni. Da un lato dunque la fede nel cinema, dall’altro la fede religiosa e non è difficile immaginare da quale parte si schieri il regista. Eppure man mano si arriva a capire come sia centrale la terza storia, quella della ragazza cacciata dalla setta che, rimasta incinta, finisce per impazzire. Ed è in questa vicenda che il regista supera la crisi interna al suo stesso film, giungendo a una sorta di sintesi: l’identificazione tra se stesso e la donna violentata. Lo dimostrano gli ultimi minuti del film in cui il personaggio del regista e quello della ragazza finalmente si incontrrano e incrociano i loro percorsi nel segno dell’emarginazione e dunque della follia. Così Diaz supera l’iniziale impasse artistico (il non saper sublimare in altri che in una figura di regista il suo disagio) e rifila una stoccata – sia pur amara – alla cattolicissima e bigotta società filippina. La sensazione di un passo indietro però resta. Quando un regista smette di parlare in maniera diretta del suo paese (e delle sue sconfitte politico-sociali) e preferisce alludervi indirettamente, denunciando sì il tradizionalismo religioso ma rifugiandosi allo stesso tempo nel cinema, significa che la sua società non offre neppure più un barlume di speranza. E non si tratta certo di un buon segno.