Un prison-movie nettamente sopra lo standar per ritmo e significati impliciti
16/04/10 – Juan Oliver è giovane ed è appena stato assunto come secondino in un carcere di massima sicurezza. Mentre sta facendo una visita sul posto di lavoro con un giorno d’anticipo, i detenuti, capeggiati dal pericoloso Malamadre, si impossessano del braccio carcerario dove si trova l’uomo, che rimane quindi bloccato dentro la prigione e nelle mani dei detenuti. Il quarto lungometraggio dell’iberico Daniel Monzón è basato sull’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul ed è stato un caso cinematografico in patria, dove ha vinto ben otto premi Goya e ottenuto ottime critiche e incassi. L’opera parte come un prison-movie e sembra possedere tutti gli stereotipi e americanismi del genere, che vanno dalla guardia corrotta a quella idealista, dal soffocamento delle restrizioni carcerarie alla violenza da esse scaturita, dall’emblema del capo carismatico dei detenuti fino all’amata moglie incinta che attende trepidante il ritorno a casa del marito incastrato in quest’assurda situazione. Ma “Cella 211” vira pian piano verso una cupezza e un’originalità etica fuori dal comune, tanto da proporre una verità scabrosa e una riflessione atipica sulle cause scatenanti della violenza. Sullo sfondo la brutalità della vita carceraria, le contraddizioni del sistema politico e la sua indifferenza, Monzón sviluppa un lavoro di ottima qualità che mescola la compattezza delle regole del film di genere con la ricerca di un linguaggio originale, personale. È la duplicità di una società e soprattutto di un personaggio protagonista, quello di Juan, a venire fuori in una pellicola confezionata ad arte nella sua forza narrativa da maistream e al tempo stesso portatrice di una verità angosciosa dove rabbia e perdita si trasformano in una complessa metafora di vita e morte, di dentro e fuori. Ma è anche la complessità del personaggio di Malamadre a ridefinire il concetto della crudeltà e dell’ironia del detenuto malvagio, perfettamente incasellato nel volto e nei movimenti dell’interpretazione di Luis Tosar, pur cesellato nella fisicità e nei comportamenti del solito schema filmico.
Il fato, il destino brutale si accanisce fino a non lasciare nessuna speranza, è il finale di questo film la chiave intera della sua funzione, del suo significato, della sua visione rivoluzionaria, complessa e del tutto anticonvenzionale. Come la duplicità di Juan, anche quella della pellicola viaggia sulla stessa linea d’onda e con essa lascia brillare una concezione coraggiosa e del tutto amara del significato e della ferocia dell’ingiustizia della vita. Con una regia a tratti elegante e a tratti volutamente sciatta e sgualcita, un montaggio eccellente e una sceneggiatura di ferro che lasciano incollati alla sedia, un cast del tutto armonizzato e ben scelto, Monzón gioca con la forma e l’estetica, con l’etica e la razionalità in un’opera che non adduce alcuna pretesa e si rivela una splendida sorpresa dove a vincere non sono i buoni né tantomeno i cattivi e dove tutto si rivela il contrario di tutto per poi tornare nuovamente indietro e lasciare lo spettatore a riflettere ancora, e ancora, e ancora. Per ovvie ragioni, non possiamo svelare, spiegare e analizzare molto. Resta il consiglio della visione. Doverosa.
Titolo originale: Celda 211
Produzione: Spagna, 2009
Regia: Daniel Monzón
Cast: Luis Tosar, Alberto Ammann, Antonio Resines, Marta Etura, Carlos Bardem, Manuel Morón, Luis Zahera
Durata: 104’
Genere: azione
Distribuzione: Bolero
Data di uscita: 16 aprile 2010