Dalla nostra inviata Giovanna Barreca
“Il sogno di mantenere intatto il cinema iraniano ci incoraggia a superare le restrizioni attuali che ci sono state imposte”, ha dichiarato Jafar Panahi in un messaggio al Festival di Cannes. Il regista non può essere qui a causa della condanna a sei anni inflittagli che ha raccontato nel documentario This is not a film, girato con Mojtaba Mirtahmash: quei terribili giorni prima della sentenza della corte d’appello raccontati in prima persona. La volontà di continuare a lavorare anche se la condanna prevede un’interdizione di vent’anni dall’attività cinematografica. E “proprio per non cedere e cercare soluzioni” dichiara Thierry Frèmaux – che con il direttore Gilles Jacob ha voluto fortemente il film del regista, vincitore l’anno scorso a Berlino per Offline. Cannes prova quindi a proteggere l’arte e i suoi maggiori esponenti.
Il paese è rappresentato anche da Bè omid è didar – Goodbye di Mohammad Rasoulof, inserito nella sezione Un Certain Regard e arrivato ai selezionatori su un dvd clandestino. Una vaschetta con all’interno una piccola ragnatela perde acqua. Una donna trasferisce l’animale. Gli costruisce una nuova prigione. Poi l’animale ‘scompare’. Allo stesso modo, una donna colta, un avvocato, scopre di essere incinta. Il suo feto ha dei problemi perché forse il bimbo soffre della sindrome di down. Vuole poter effettuare le visite specialistiche del caso. Vuole lasciare il paese ma senza un marito è tutto molto difficile. La sua casa viene perquisita più volte. Olia le maglie del sistema con diverse bustarelle e finalmente ottiene il passaporto. Lascia la sua casa, e in un albergo, la notte prima della partenza del suo volo, viene arrestata. Utilizzando per quasi tutta la totalità del film macchina fissa che segue il calvario umano della donna, il regista ci porta nell’Iran meno raccontato. Non è quello dei tg che si concentrano solo sulle proteste di piazza senza ricordarsi mai che è la quotidianità dei piccoli gesti quella che rende il regime feroce. Ribadiamo, una piccola storia di vita quotidiano, dove ogni gesto e ogni parola non è libera. Dove la macchina da presa utilizzata con tanta riflessiva attenzione si rivela un’ottima soluzione espressiva per raccontarci quella staticità imposta. Inoltre facilita enormemente, proprio per la semplicità del mezzo, l’interpretazione dell’oppressione costante vissuta. La scansione del tempo, inquadrature molto lunghe poi regalano grande fascino al film come l’interpretazione di Leyla Zareh. Nota di cronaca: parte del cast presente in sala alla prima proiezione stampa, dedica il premio a “tutti i prigionieri iraniani dei quali purtroppo non conosciamo i nomi”.