Due anime in cerca di una luce. Forse così si può riassumere il viaggio di Agata e di Lince per portare al “Santuario dei respiri” la piccola bimba di Agata, nata morta e quindi destinata – secondo vecchie credenze religiose – al Limbo, ad essere un’anima perduta per l’eternità. Un respiro potrà liberarla e la giovane donna, distrutta da un dolore sempre molto composto e pieno di dignità, vuole assolutamente regalarglielo, a costo di avventurarsi in un territorio montano che non conosce e che non ha mai visto.
Piccolo corpo, opera prima di Laura Samani, presentato in prima mondiale alla Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2021, è ambientato in un tempo lontano, quando c’erano le lampade ad olio e la vista di una lampadina sembra qualcosa di profondamente misterioso e Agata (Celeste Cescutti) vive in un piccolo villaggio di pescatori, in riva al mare in quello che oggi è il Friuli Venezia Giulia, come si evince dal dialetto parlato da tutti i personaggi. Avvolto in un bianco denso (già presente nei titoli di coda) lo spettatore entra nel film dal dettaglio del velo bianco che avvolge la giovane gravida, da una luce intensa e dal canto del rito al quale si sottopone, in vista del parto, la giovane per essere protetta dalla Vergine: “Disgrazia va via, entra Maria”, recitano le donne che la circondano. Nella scena successiva, con un forte contrasto cromatico, la scena del parto con un’Agata sfinita che una volta sveglia scopre cos’è accaduto alla sua bambina, seppellita frettolosamente perché il cuore possa dimenticarsene, come le dice la madre. Ma né il corpo con il latte che esce dai suoi seni, né il suo cuore possono riuscirci e la ragazza vive con il tormento di sapere la figlia sola e perduta nel Limbo. Non ricevendo aiuto e conforto dal prete, dal marito e dai genitori, decide di andare da sola al Santuario, dove la piccola potrà emettere un solo respiro e quindi essere battezzata. Durante il viaggio Agata incontra Lince (Ondina Quadri) che sarà guida e voce di quelle montagne (oltre ad essere, come Agata ma in maniera diversa, sola). Il viaggio via mare, per poi avventurarsi sulle montagne inizia con una ninna nanna che sarà anche quella che – con una scena finale di struggente dolcezza e forza espressiva – chiuderà l’avventura della donna e della sua bambina.
Laura Samani torna a Cannes con il suo primo lungometraggio, dopo aver presentato nel 2016 in Cinéfondation La santa che dorme, il suo corto di diploma al Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Anche nel corto erano presenti due giovani (più piccole per età di Agata e di Lince) e la ricerca di un “miracolo”, in quelle stesse montagne, in quello stesso Friuli che ha dato i natali alla regista e che la cineasta voleva esplorare, tornando su una storia poco nota ai più ma che ha invece riguardato molti territori dell’arco alpino (dall’Italia alla Francia) dove erano sorti oltre duecento Santuari come quello di Trava, protagonista nel film. Viste le difficoltà per raggiungerli, i viaggi erano compiuti solitamente dai padri dei bimbi nati morti. Samani ha iniziato a sviluppare la sceneggiatura con Marco Borromei e Elisa Dondi, partendo proprio dall’idea che fosse invece la madre a percorrere il tragitto con il peso del feto che dalla pancia si sposta sulla schiena. E, come afferma anche durante la nostra intervista, camminando ha trovato, con le sue attrice, il passo e il respiro del film che inizia con un velo che copre e poi mostra per la prima volta lo sguardo della protagonista e che continuerà, metaforicamente, a sollevare veli sullo sguardo dello spettatore che affianca Agata e Lince e ne indaga il dolore indicibile della perdita di un figlio e la profonda solitudine.
Come detto nell’intervista Samani usa molti campi lunghi, poco usati ne La santa che dorme. In Piccolo corpo rende il paesaggio protagonista della storia, crea una drammaturgia con lo spazio che ha reso possibile la narrazione di una storia così struggente ma anche carica di determinazione. Un’opera prima piena di ricerca dove il respiro dello spettatore è cadenzato dal ritmo delle immagini, con una luce naturale che rivela la forza espressiva sui volti del personaggi e una macchina da presa che viaggia con loro e che – come spiega l’autrice – sa “faticare insieme a loro”.
Il film è stato prodotto da Nadia Trevisan e Alberto Fasulo di Nefertiti film e da Rai cinema, in co-produzione con Tomsa Films e Vertigo.
giovanna barreca