(Rubrica a cura di Andrea Iannone)
PROFONO ROSSO (Italia, 1975) di Dario Argento
La perversione della normalità , il protagonismo della macchina da presa, la musica, il vuoto
24/11/08 – Nello scrivere la sceneggiatura, gli autori sono stati molto attenti a pervertire di continuo la quotidianità , a rendere minaccioso o mortale ciò che ognuno di noi ha esperito e visto. Il realismo e la verosimiglianza della situazione filmica spaventa lo spettatore più di un prodotto della fantasia. Il co-sceneggiatore, a proposito della scena in cui una donna muore essendo stata annegata in una vasca d`acqua bollente, spiega: “tra il pubblico, pochi, pochissimi sono coloro che hanno provato sulla loro pelle un colpo di pistola. Invece tutti sanno cosa si sente quando ci si scotta”. Mostrare sotto un`ottica sinistra ciò che sembra più innocuo è un altro fattore temibile della pellicola. La cantilena infantile, che di per sè infonde tutt`altro che spavento, diventa inquietante usata dall`assassino nei suoi momenti di raptus; come una tenera bambola trovata impiccata in una stanza dove poco dopo avverrà un omicidio. La novità di questi elementi di Profondo Rosso ha poi ispirato una lunga, lunghissima serie di film horror. Ma sono rintracciabili anche luoghi comuni del genere: l`assassino con le mani ricoperte dal guanto nero (una curiosità : le mani sono di Argento), l`occhio che spia un personaggio da un armadio buio, la villa abbandonata. Ciò che forse è più famoso e rinomato del film, però, è il tema principale, composto ed eseguito dai Goblin. Spesso, la traccia musicale è veicolo delle emozioni, come nella scena col carrello su alcuni giocattoli infantili, dove il tema principale impazza in sottofondo, caricando quei semplici oggetti di un`aria incredibilmente minacciosa. Originalissimo, poi, è il modo di usare la macchina da presa. Carrelli su dettagli apparentemente insignificanti, piani sequenza larghi e di lunga durata, movimenti di macchina che abbandonano il protagonista per spostare l`inquadratura su una zona dell`ambiente dove, a prima vista, non vi è nulla degno d`attenzione. Chi guarda, vivendo attivamente la vicenda filmica, è “costretto” a chiedersi su cosa vuole mettere l`accento il regista. Nel nostro caso, quest`operazione di regia è finalizzata ad aumentare l`apprensione, ad affidare alle immagini il compito di spaventare.
E` una lezione importantissima quella che ci dà Argento: l`horror lavora sugli estremi, prima di narrare una storia, dunque, ha il dovere di imprimere forti emozioni e, spesso, le emozioni sono tanto più acute quanto più lontane dalla materia del racconto sono le immagini usate per suscitarle. Un tale uso della macchina da presa serve a costruire in primis immagini sconquassanti e, in secundis, tensione emotiva. I lunghi piani sequenza esasperano lo spettatore, lo minacciano a livello inconscio: lui o lei si aspetta che in qualunque istante irrompa qualcosa (o qualcuno) da uno dei bordi dell`inquadratura. Fondamentale, inoltre, risulta la funzione dell’ambiente e del “vuoto”. Per ambiente, s`intende il luogo in cui si svolge una determinata scena del film, che in Profondo Rosso ricopre un maggiore ruolo espressivo rispetto al periodo precedente di Dario Argento. Grazie anche ai budget più elevati, le scenografie assumono toni e forme sempre più particolari (vd. Suspiria), distinguendosi per i colori pastello apparentemente innocenti, che nascondono essenze ben più aspre e maligne, e per la sproporzionata distribuzione degli oggetti d`arredamento (di gusto liberty e baroccheggiante), che creano strani effetti di pieno e vuoto alternati. Profondo Rosso, però, è caratterizzato anche dalla presenza costante del vuoto: di scenografia, come appena detto, o di personaggi, o addirittura di banda sonora. Spesso e volentieri, in una scena con una musica incalzante, questa s`interrompe. Il personaggio si ferma. E cala il silenzio. Tratteniamo il respiro, certi che la quiete sarà squarciata da qualche improvviso rumore e… invece niente. L`azione riprende, la musica riparte, come niente fosse. Eppure rimane una sensazione di profondo disagio. Aspettiamo ancora che quel vuoto venga riempito. L`ansiolitica attesa si esaspera e si prolunga. Ciò è dovuto, secondo me, al nostro modo di percepire il vuoto. Come la scena in cui il personaggio di Lavia si trova solo in casa con il serial killer. Per comunicare il suo terrore vengono montate velocemente inquadrature di alcune stanze della casa. Vuote. Il personaggio è abbandonato dai suoi sceneggiatori-creatori a un crudele destino di morte in solitudo, e l`uomo, da sempre, teme la solitudine e l`oscurità . Ci disturba l`idea di rimanere obbligatoriamente senza legami, circondati dal nulla e senza possibilità di tornare in contatto con la realtà . Quasi una nostra visione dell`inferno: l`eterno isolamento dell`anima dopo la fine della vita. E` il vuoto che ci mette paura, rappresentando ciò che più temiamo: la possibile mancanza di un`esistenza oltre la morte.