Il meló islamico di Qurbani Burhan
(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)
19/02/10 – Le questioni che ruotano intorno alla fede islamica sono al centro di ben tre pellicole presentate alla Berlinale 60. Nel film indiano “My Name is Khan” di Karan Johar il centro del discorso è la discriminazione che colpisce, specie negli aeroporti, i musulmani che vivono e si spostano negli USA, mentre il bosniaco “Na Putu” (“On the Path”) di Jasmila Zbanic mostra come l’adesione ad una fede islamica conservatrice provochi la fine di un matrimonio, infine in “Shahada”, opera prima del regista afgano-tedesco Qurbani Burhan è l’islam più liberale a fare da collante ad un complesso mosaico di storie.
Tre sono le traccie narrative di questo film corale di ambientazione berlinese. La prima è la storia di Maryam (Maryam Zaree), figlia di un illumitato e competente imam locale, che decide di abortire il figlio che aspetta da un coatto omofobo. La cosa più interessante però è che la ragazza ha scelto un luogo alquanto insolito per portare a termine la gravidanza: dopo aver ingerito la pillola abortiva se ne va infatti in discoteca con un’amica, che al mometo giusto la accompagnerá in bagno. Turbata dall´accaduto, Maryam maturerá un terribile senso di colpa che la condurrá ad accostarsi ad una fede islamica ben più severa e intollerante di quella predicata dal padre nella moschea. Ismail (Carlo Ljubek) è invece un poliziotto felicemente sposato e con prole. Ma qualche anno fa, per errore, ha sparato ad una donna, un’immigrata bosniaca, provocando la morte del bambino che aveva in grembo. Quando questa donna riappare, nel corso di un controllo sui documenti d’immigrazione, Ismail crede sia venuto il momento, per lui, di espiare la sua colpa. Infine abbiamo la storia del giovane Sammi (Jeremias Acheampong) che inizia a provare qualcosa di più di una semplice amicizia per il suo amico e collega Daniel. I due, che lavorano in un ambiente tutto virile, ovvero il mercato all’ingrosso del pesce, rischiano di finire vittima dell’omofobia ivi imperante. Inoltre, Sammi è musulmano e teme che i suoi sentimenti “impuri” per un altro uomo siano contrari alla sua fede.
Immigrazione clandestina, aborto, fede islamica e omosessualitá sono dunque i temi caldi al centro di questa pellicola presentata in concorso a Berlino 60. Si direbbero argomenti sufficienti a foraggiare la scrittura di un’intera serie televisiva e di fatto sono decisamente troppi per un film che in fin dei conti si rivela assai blando e poco incisivo. Lo stile narrativo del film replica a tratti, con i suoi ritorni indietro e l’intrecciarsi apparentemente fortuito delle storie, quello oramai “classico” dei film sceneggiati da Iñárritu ma, mentre nelle sceneggiature del celebrato aurtore messicano, ogni tassello torna poi al suo posto e ogni voluta temporale è funzionale ad una più netta esposizione di un concetto, “Shahada” mette tanta carne al fuoco senza riuscire mai ad abbrustolirla a dovere.
Non basta infatti parlare di islam e immigrazione per realizzare un film adatto ad un pubblico internazionale, magari saremo smentiti dall’assegnazione a “Shahada” di qualche premio, ma riteniamo che il cinema d’impegno meriti toni più decisi e storie ben più sviluppate di queste.