Diario del 16 febbraio dalla 61. Berlinale
(Dalla nostra inviata Lia Colucci)
17/02/11 – Il settimo giorno del Festival di Berlino ci presenta in concorso un film turco del giovane regista Seyfi Teoman, nato a Kaisery nel 1977, Our Grand Despair. La semplice vita di due uomini che dividono la stessa casa, Ender e Çetin, è completamente stravolta dall’arrivo improvviso di una amica della sorella di uno dei due amici, Nihal, introversa e instabile, che si stabilisce con prepotenza nel loro appartamento ad Ankara. Oramai Ender e Çetin sono praticamente una coppia, niente a che vedere con l’omosessualità, ma hanno le loro abitudini: cucinano insieme, escono insieme, vanno addirittura in vacanza insieme. La loro è un’esistenza fatta di piccole ritualità, in un universo claustrofobico che – come sottolinea il regista – si muove praticamente quasi esclusivamente dentro le mura domestiche. L’entrata in scena di Nihal, i cui genitori sono da poco morti in un incidente stradale, porta da una parte la gioia della sua giovinezza ma dall’altra le sue continue depressioni e profonde malinconie, nonché i suoi frequenti eccessi con l’alcol. Ender, che è l’intellettuale del gruppo, cerca di risolvere i problemi in maniera piuttosto astratta, mentre Çetin , concreto e pragmatico, cerca di entrare in contatto diretto con la ragazza per capirne i veri problemi. Vero è che in tutta questa ingarbugliata situazione entrambi si sono innamorati di Nihal e questa è la loro grande disperazione. Un film aggraziato, girato, come dicevamo, in maniera piuttosto claustrofobica, tale da far percepire il piccolo mondo autoreferenziale in cui si sono rifugiati i due amici con dei piccoli spaccati di luce che attraversano solo Nihal. Molto convincenti i dialoghi e interessante la sceneggiatura, che anche se si deve muovere in uno spazio molto serrato è convincente e brillante.
Piuttosto deludente il film di Rodrigo Moreno (in Concorso) A Mysterous World. Lasciato dalla sua fidanzata che gli chiede tempo – un mese, un anno forse dieci, un tempo indefinito, dunque, per riflettere – Boris lascia la casa coniugale e si trasferisce in albergo. Da qui comincia la sua scoperta del mondo fatta di incontri improbabili a bordo della sua nuova macchina, tutta fabbricata nella Russia comunista e con i pezzi ahimè tutti originali che lo lasciano spesso per strada. E’ anche un viaggio nel mondo femminile fatto di incontri fugaci, che per una notte d’amore lo portano sino a Colonia per ascoltare una segreteria telefonica scoraggiante che lo rimanda a casa, ossia in albergo, con la coda tra le gambe. Rimorchi passeggeri, fatti di estenuanti pedinamenti. Un tristissimo capodanno passato con il suo meccanico a riparare il suo capolavoro russo e con gli amici dell’hotel che guardano sconsolati il concerto d’inizio anno. Infine si presenta dalla sua ex, e in un ambito di freddezza generale, vede dalla finestra un ragazzino che gli ruba la macchina stalinista. Tutto questo è il mondo misterioso di Boris, fatto di qualche tartina ketchup e maionese, in una città di cui non viene fatto il nome e di cui il regista non ci regala nessuna fascinazione. Così come poco attraenti sono i personaggi del film che dovrebbe avere qualche momento di brio e ironia e invece si accascia su banali avvilente tristezza. Ma non è neanche una pellicola sulla solitudine è molto di meno: è un manuale sulla sfigataggine umana ritratta in tutte le sue sfumature, e che per di più non strappa neanche involontariamente un sorriso o un momento di pietà. I dialoghi inesistenti e scontati fanno da perfetto contorno a un film piatto e decisamente mal riuscito. Se vi può consolare solo fischi in sala.