Beket

Torna sugli schermi - dopo un'uscita invisibile nel 2009 - l'opera terza di Davide Manuli, un film lampo piccolo e radicale recuperato grazie a Distribuzione Indipendente. La nostra intervista al regista.

Bloccato, osteggiato, stanco e oppresso Davide Manuli si trova nel 2009 fermo – dopo aver diretto Girotondo, giro intorno al mondo e Inauditi-inuit! -, con un progetto incagliato nelle acque basse dei corridoi ministeriali. Ecco allora la necessità, l’urgenza, la foga quasi, di scrivere e girare un (altro) film in tempi brevi, con pochi soldi. Beket viene da qui. Scritto, prodotto e finito nel giro di pochi mesi, con un cast complessivo di una decina di persone e un budget approssimativo di trentamila euro, il film viene subito scelto da Locarno per il Concorso Internazionale. Uscito in una sola sala, al Filmstudio di Roma, resiste diverse settimane per poi iniziare la sua strada clandestina tra proiezioni evento e homevideo.

Nel 2013, proprio a ridosso dell’uscita del film successivo, La leggenda di Kaspar Hauser – quello che lo stesso Manuli ha definito come la seconda parte di un dittico, e che Circuito Cinema farà uscire in una trentina di copie, su schermi “ufficiali” a partire dai primi di giugno – Distribuzione Indipendente recupera alla platea cinematografica questo brillante esempio di cinema italiano indipendente e intransigente.

Una coppia di personaggi eccentrici si ritrova in un deserto, sulle tracce di un certo Godot, che i due si dicono intenzionati a raggiungere. Un agente/caronte sorveglia la loro anomala traversata che procede tra incontri surreali, soste logorroiche e un apparente epilogo felice che precede da vicino la chiusura di un anello (anti) narrativo avvolto su se stesso.

Il pretesto, dice Manuli, è nato dall’idea di immaginare il seguito di Aspettando Godot: dopo la lunga attesa passiva, l’inizio di una ricerca, di un viaggio senza meta. Niente di meglio di due personaggi sperduti in un immenso deserto per un film che deve esser realizzato senza budget. L’idea ha del genio. Il bianco e nero che Manuli ottiene usando la pellicola vale da solo il prezzo del biglietto. Gli interpreti – tutti – sono giusti e giocano con intelligenza il proprio ruolo. La struttura del film, che si muove ambiguamente al confine tra narrazione e anti-narrazione, racconto e parodia, sembra congegnata come una partitura musicale, articolata secondo movimenti, temi ricorrenti, motivi arrangiati e riarrangiati. E di fatto la musica ha un ruolo fondamentale: non solo per imprimere ritmo e potenza alle immagini, per scandire e cadenzare l’andamento del film, ma proprio per alludere a una delle ispirazioni del film, che è spesso dadaisticamente ironico, forse addirittura goliardico.

Un film che è un gioco e una parodia e in questo anche un po’ un saggio un po’ un poema; un pezzo di cinema prodotto in fretta ma frutto maturo della disperazione, della stagnazione, del bisogno di possibilità. Un pezzo di cinema da non prendere troppo sul serio e da godersi invece nella sua anarchica, violenta, cinica leggerezza.

SILVIO GRASSELLI