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Nell’annata decisamente positiva del nostro cinema, si può trovare un notevole e innegabile punto d’interesse: l’affezione sempre maggiore del pubblico (e della critica) verso gli interpreti, da sempre vero cuore pulsante di una cinematografia. Di fronte alla progressiva affermazione di una riconoscibile generazione di attori, probabilmente Giuseppe Battiston può vantare quest’anno di essere apparso in ben quattro film della stagione: La passione di Carlo Mazzacurati, Figli delle stelle di Lucio Pellegrini, Senza arte né parte di Giovanni Albanese e Notizie degli scavi di Emidio Greco. Per i primi tre film Battiston è candidato ai Nastri d’Argento come Miglior attore non protagonista, mentre con il primo, La passione, ha vinto lo scorso maggio il suo terzo David di Donatello, sempre come Miglior attore non protagonista. Il primo David arrivò per Pane e tulipani di Silvio Soldini, che nel 2000 fece conoscere l’attore friulano al grande pubblico, ma non ci sembra sbagliato dire che proprio quest’anno Battiston abbia raggiunto la definitiva consacrazione e la giusta dimensione di interprete, in particolare nelle venature grottesche e insieme drammatiche (se non cristologiche) del personaggio di Ramiro nel film di Mazzacurati.
Una complessità umorale e recitativa che si ritrova anche nello spettacolo teatrale Orson Welles’ Roast, scritto dallo stesso attore insieme a Michele De Vita Conti e in tenitura al Teatro India di Roma dal 28 maggio al 5 giugno (lo spettacolo è stato presentato per la prima volta a Torino nel 2009). Qui Battiston incarna un Welles isolato e ormai definitivamente incompreso e, accanto a diversi momenti di comicità, si riconosce la malinconia profonda di un genio del cinema costretto negli ultimi anni della sua carriera a costruirsi i film da sé, a improvvisarsi costantemente come uomo-orchestra e capace di regalarci gli ultimi magnifici frame della sua cinematografia con la sua sola presenza in scena di fronte ad una macchina da presa fissa (come ad esempio il suo Moby Dick della durata di soli cinque minuti e visibile nel film di Oja Kodar e Vassili Silovic Orson Welles: The One-Man Band, 1995). E negli improvvisi sbalzi di umore del monologo in accappatoio di Orson Welles’ Roast Battiston aderisce perfettamente alla imponente dimensione di polvere di stella/star di un gigante passato dall’avere il mondo ai suoi piedi (ai tempi de La guerra dei mondi e di Quarto potere) al morire da solo in casa al lavoro in piena notte davanti a una macchina da scrivere e con in bocca l’ultimo sigaro.