Visage di Tsai Ming-liang
(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
19/07/10 – Con ogni probabilità Visage (2009), presentato all’ottava edizione dell’Asian Film Festival, è tra tutti i film di Tsai Ming-liang quello che si pone più scopertamente sul versante del meta-cinema e del meta-linguaggio. Il cineasta taiwanese gira a Parigi, su finanziamento tra gli altri del Louvre, e in certo modo mette in scena il cinema stesso. Si potrebbe ripensare a una rilettura di Effetto notte di Francois Truffaut o a similari esempi di cinema sul cinema. Ma se ad esempio in Truffaut giocava un ruolo fondamentale la “meccanica” frenetica del set e cioè incontri, scontri, détours fra personaggi, qui al contrario tutto è freddo, immobile, glaciale. Il film nel film in Visage dovrebbe essere in effetti una rilettura di Salomè interpretata da Laetitia Casta, che si esibisce in balletti tra la neve e si sottopone alle torture del regista che pretende che la pelle dell’attrice dia l’impressione del ghiaccio (per riuscire magari a intravedere anche le vene). Ne nasce un’atmosfera rarefatta, distante, “di superficie”. Ed è proprio a partire da quest’ultimo termine che si può provare a ripercorrere l’ultimo grande film di Tsai: superficie perché si parla di volti e di corpi, di abiti che adornano corpi o li “imprigionano”, di maquillage per “lavorare” un viso e di ferite sui volti da evidenziare più che da nascondere.
E dunque i volti e i corpi di Lee Kang-Sheng (attore feticcio di Tsai che qui interpreta il ruolo del regista), di Jean-Pierre Léaud (figura ricorrente nel cinema di Tsai, oltre che naturalmente icona dell’opera di Truffaut), di Fanny Ardant, della stessa Laetitia Casta, di Jeanne Moreau, Nathalie Baye e persino di Mathieu Amalric (il suo volto nell’oscurità appare tra i boschi, come un novello fauno) sono i cardini e la carne di Visage; è la loro presenza enigmatica in quanto attori e non personaggi a segnare il senso del film che si puntella ulteriormente intorno a un cervo disperso che non si riesce a far muovere secondo il desiderio del regista (la non programmaticità ontologica del cinema) e al mito di Salomè, per l’appunto. Quest’ultimo è tutt’altro che casuale perché l’iconografia del San Giovanni decollato viene riletta e rivista (ma forse sarebbe meglio dire sostituita) da Tsai nella figura cinematografica del primo piano che altri non è che un “decollamento” dal corpo dell’attore. E il tema di Salomè si lega esplicitamente al “tema del cervo” quando si vede la Ardant che trascina con fatica una testa di cervo impagliata…
In tutto ciò resta ancora da parlare della figura chiave di Visage e cioè la madre (cui Tsai ha dedicato il suo film), la sua malattia prima (subito dopo una esilarante scena di “rottura delle acque”) e la sua morte poi, cui segue il nutrimento del suo ricordo (la mela che Fanny Ardant mangia, prendendola dal piccolo altare dedicato alla donna scomparsa) e il parallelo con il ricordo di Truffaut (fatto attraverso la stessa Ardant che di Truffaut è stata l’ultima compagna); ecco che allora vita privata di Tsai e cinema, pubblico e privato, diventano la stessa cosa, nel segno di un continuo rimando e di un costante riappropriamento quasi antropofagico e/o metempsicosico. Visage perciò è mortifero, glaciale e luttuoso (si veda in ultimo anche l’ossessione della Casta che riempie costantemente di scotch nero la “luce”), ma non è mai nostalgico e dunque è vivo e, in certo modo, nutrendosi del passato, guarda al “futuro”, della vita, del cinema, di quello che sarà…