Prima di trovare una distribuzione l’esordio nel lungometraggio di Marco Luca Cattaneo c’ha messo più di due anni. Amore liquido è uno di quei film che nasce per ostinazione e vive fin dal principio vita difficile, fatta di povertà e sacrifici. Come si sa, chi vuol girare un buon film non ha bisogno ormai che di poche semplici cose e anche con pochi spiccioli può legittimamente aspirare agli schermi più prestigiosi, o almeno questo è quello che potrebbe succedere se fossero le opere a interessare davvero “il mercato”. Lasciando da parte mitologie e contromitologie del cinema indipendente (e di quello pauperistico), quel che è certo è che qualsiasi “opera d’ingegno”, per meritarsi il diritto d’esistenza deve perlomeno dimostrare di avere un po’ di sale in zucca, di essere il prodotto di una buona spremuta di meningi.
Amore liquido – che pur senza riferimenti diretti, piglia il titolo da un saggio di Zigmunt Bauman sulla liquidità delle relazioni nell’Occidente contemporaneo – dimostra, fin dalla sinossi letta su carta, di essere frutto di una buona intuizione: il purgatorio perenne della solitudine di un uomo adulto, né giovane né vecchio, né buono né cattivo, che vive con una madre ormai alienata dalla malattia e dall’età e trova sollievo solo nella pornografia, nella fantasticheria adolescenzial-erotica e in un guardonismo che spia circospetto le vite degli altri. La Bologna ferragostana che immagina Cattaneo è una delle cose più giuste del film. Ma oltre le idee crude di una sinossi essenziale e qualche buona trovata narrativa, Cattaneo dimostra – almeno in questo caso – di non saper andare oltre. E questo purtroppo prima di tutto sul fronte della regia: le inquadrature lunghe, le riprese ridondanti dei gesti quotidiani, il gusto per il tempo morto, il silenzio, la stasi della narrazione non sono elaborate in un discorso, plasmate dal duro lavoro di un autore che cerca e trova soluzioni espressive sue proprie, che pensa e parla per immagini. Il racconto invece scorre in balia di se stesso, ridotto alla sequenza lineare di illustrazioni inerti in una narrazione che avrebbe potuto – e forse dovuto – essere forte e giusta e che invece si ferma prima: prima di diventare cinema, prima di diventare una cosa qualsiasi.
E così pure gli interpreti mostrano di avere corpi e gesti pronti, ma di non avere una guida che li “scriva”. Così Amore liquido finisce per apparire come lo story-board animato di un film che ancora non c’è, di un film proiettato in contumacia. Ed è un doppio peccato: il peccato che compie il regista-sceneggiatore, che non sa trovare il rigore minimo per portare a compimento il suo film, seppure attraverso il mare in tempesta della penuria congenita; e poi la delusione che patisce chi spera sempre, chi spera ancora che il cinema italiano (indipendente o no, poco importa) sappia capire i propri errori e ridiventare grande, e si vede costretto in un luogo scomodo e angusto, sempre “prima della rivoluzione”. Una rivoluzione sempre possibile, e sempre disertata.