Con accanto Dustin Hoffman, Paul Giamatti prova a dare la “sua” versione di Barney
14/01/11 – Paul Giamatti è probabilmente uno degli attori più dotati della sua generazione, spesso relegato al ruolo di caratterista, sia pur di gran classe, a causa del fisico non proprio da adone che si ritrova ad avere. E dunque con La versione di Barney, in cui è protagonista assoluto, si trovava di fronte alla possibilità di avere il ruolo della vita, o quantomeno quello della definitiva affermazione nello star system hollywoodiano. Forse non è neppure troppo un caso che si trovasse a recitare al fianco di Dustin Hoffman che nel film interpreta suo padre e che per l’appunto a suo tempo, da Il laureato (1967) in poi, riscrisse le regole del divismo e della recitazione made in Hollywood. Se questo salto non si è realizzato (o forse se si compirà solo in un contesto da Academy) non lo si deve certo alla scarsa vena di Giamatti, che anzi nel ruolo del produttore televisivo Barney Panofsky, mostra una misura e una complessità di toni davvero invidiabile (che nell’ultima parte del film inducono persino alla commozione); la “colpa” dell’occasione mancata la si deve trovare nel film stesso, nella sceneggiatura e nella regia del mestierante Richard J. Lewis, il cui curriculum è rigonfio di regie televisive a partire dalla serie C.S.I.
Quel che prima di tutto grida vendetta è il rozzo adattamento che si è fatto dal romanzo omonimo di Mordecai Richler: là dove il testo scritto si giovava della malattia del protagonista (il morbo di Alzheimer) per costruire una congerie inestricabile di flashback il cui contenuto finiva per risultare forzatamente ambiguo, qui il congegno viene sciolto in una meccanicità da vecchia scuola (Barney guarda una foto ingiallita che lo ritrae insieme all’amico scomparso e si ricorda di quand’era giovane). Ma, addirittura, saltano le premesse essenziali al testo, il motore primo dell’azione: la versione di Barney dovrebbe essere per l’appunto la sua versione dei fatti in relazione alla morte dell’amico scrittore; la qual cosa decade nell’adattamento cinematografico, in cui per l’appunto la morte rocambolesca dell’amico, invece di essere il nerbo della struttura narrativa, risulta quasi un episodio a sé stante, staccato dal concatenarsi degli eventi.
Persi questi elementi, cosa rimane? Rimane la vita di un uomo portata avanti per macroscene separate da lunghe ellissi in cui tutto ha il sapore dell’aneddotica: gli episodi si dispiegano uno dopo l’altro senza mostrare mai di avere un’autentica necessità o una qualsivoglia coerenza interna. Di cos’è che parla allora La versione di Barney di Richard J. Lewis? Della vita di un uomo che ha vissuto in modo né troppo avventuroso né troppo monotono, di un’esperienza che non riesce a farsi metafora di nulla, né di un’epoca né della casualità dell’esistere, né meno che mai della disgregazione – anche verbale – del ricordo di sé. Forse invece, involontariamente, il film di Lewis vale quale testimonianza di come Hollywood non sia più in grado di sfornare prodotti di media levatura: o ci si regge sui grandi autori, vecchi o no che siano (Scorsese, Eastwood, i Coen, ecc.) o sul blockbuster bigger than life, preferibilmente in 3D.
Titolo originale: Barney’s Version
Produzione: Canada, Italia 2010
Regia: Richard J. Lewis
Cast: Paul Giamatti, Dustin Hoffman, Minnie Driver, Rosamund Pike, Rachelle Lefevre, Scott Speedman, Bruce Greenwood, Macha Grenon, Mark Addy, Anna Hopkins, Luca Palladini
Durata: 132′
Genere: commedia
Distribuzione: Medusa
Data di uscita: 14 gennaio 2011
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