Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Quando al cinema il western aveva trovato il suo naturale e definitivo esaurimento negli anni Sessanta, salvo poi qualche eccezione di natura autoriale nei Settanta, il genere ha proseguito dalla fine degli anni Cinquanta il suo percorso narrativo in televisione. Con questo approccio va letto Alla conquista del West, saga epica e familiare dei Macahan (recentemente editata in Italia dalla Warner Bros. in edizione dvd in un cofanetto contenente la serie tv completa), che negli anni della Guerra di Secessione avevano abbandonato la florida e umida Virginia per l’accidentato West, alla volta dell’Oregon, meta di milioni di pionieri che in quegli anni dell’Ottocento lottavano per vivere una prima forma del sogno americano. Quel West mitologico, fulcro narrativo per tanto cinema di genere, segue sul piccolo schermo gli intenti sia del proprio mezzo che di quello a cui aveva fatto le scarpe. Dal cinema, Alla conquista del West riprende infatti la ricostruzione del genere in sé, di quelle pellicole ricche di avventure e protagonisti maschili coraggiosi, divisi fra angeli femminili del focolare, intrepide ma timorate di Dio, e donne vissute, ballerine di saloon, prostitute, donne che la vita nuda e cruda la conoscevano bene, ma dal cuore d’oro: visione fin troppo da manuale di quegli anni duri. Dalla televisione invece acquisisce i canoni seriali della saga, degli sviluppi amorosi, dei vincoli di sangue. Minimo comun denominatore, ovviamente, un racconto popolare che inducesse ad incollare al televisore quei nostalgici ricordi di un mondo lontano, forse neanche reale per certi aspetti, ma perfettamente costruito intorno al ritratto di un’America limpida, pura, capace di farsi da sé con la forza del sudore della fronte ed anche con una buona dose di violenza, perché no! La famiglia Macahan diventa così, alla fine degli anni Settanta, veicolo immaginifico molto più dei sonnolenti e timorati Ingalls de La casa nella prateria, altra serie sui pionieri di quegli anni, ma sviluppata in maniera più statica e pacifica rispetto alla saga dei Macahan, che invece racconta proprio le disavventure della famiglia attraverso un tipo di narrazione molto più classica e mitologica, per certi versi cinematografica nel tono del racconto popolare, ma perfettamente incuneato nel sistema di scrittura televisivo per la sua forma epica, tipico poi del genere delle miniserie-fiume popolarissime in quegli anni (quelli sono anche gli anni dei festeggiamenti dei due secoli della nascita degli Stati Uniti d’America).
Alla conquista del West, nato come film per la tv di un’ora e mezza e poi annesso ad una miniserie di altre tre puntate della medesima durata, proseguita nella stagione successiva nella stessa forma, ma con un numero maggiore di episodi, e succeduto a sua volta da una terza con episodi autoconclusivi, che alternano spesso come protagonista uno o l’altro dei componenti della famiglia, la vicenda dei Macahan trova maggiore risalto nel personaggio di Zebulon “Zeb”, un uomo che nella sua lunga vita di pioniere ha vissuto numerose e notevoli avventure ed ora deve occuparsi anche della vedova di suo fratello e dei suoi figli appena trasferitisi all’Ovest. La sua una figura che rappresenta perfettamente quel mito del West, di cui inoltre il James Arness che lo interpreta sottolineava all’epoca quell’immaginario iconografico ancor di più perché per vent’anni era stato protagonista della serie western più popolare della tv, Gunsmoke, nel ruolo del mitico sceriffo Matt Dillon. Ex-eroe pluridecorato della seconda guerra mondiale, nonché repubblicano, Arness con la sua prominente altezza (due metri e un centimetro), il volto rude e rugoso, bruciato dal sole, è stato per il piccolo schermo quello che John Wayne è stato per il grande: il prototipo dell’uomo di frontiera, la raffigurazione del coraggio e dell’onestà di gente capace di adattarsi alle avversità e in grado di sognare e vivere l’America con i suoi sfondi incontaminati e vergini dimenticando però, o perlomeno lasciando sullo sfondo, il sangue versato in maniera non proprio eroica; la questione indiana, siamo alla fine degli anni Settanta, è affrontata con un po’ più di attenzione revisionista rispetto ai tempi in cui i popoli indigeni erano raffigurati tutti come brutti sporchi e cattivi, anche se i personaggi in questione vengono trattati con condiscendenza; le sfumature caratteriali invece non sono proprio così sfumate come invece accade sempre di più nella serialità odierna (un eufemismo in tal senso sarebbe citare lo splendido Deadwood), ma a conti fatti Alla conquista del West è un bellissimo spettacolo di retorica e di epica, di buoni sentimenti, di esaltazione del sogno americano, il ritratto di un mondo che è esistito certo nella mitologia prima che al cinema e in televisione poi, che a torto o a ragione tutti abbiamo amato. E che continueremo ad amare nonostante tutto. Poi piace sempre vedere il talento di attrici come Eva Marie Saint e Fionnula Flanagan (nonché una marea di guest star del cinema e della tv che fu) all’opera.