La vicenda umana di Farley Granger, scomparso per cause naturali all’età di 85 anni, configura una tipica parabola negativa da Studios hollywoodiani anni Quaranta e Cinquanta. Epoca in cui gli Studios acquistavano letteralmente attori, costruendo su di loro veri e propri progetti editoriali, che poi, se si rivelavano fallimenti commerciali, condannavano all’anonimato attori validi e meno validi senza troppe cerimonie. Su di lui fu Samuel Goldwyn a investire, tramite un consueto (per quegli anni) contratto-capestro che legò attore e produttore a doppio filo per molti anni. Il tentativo di lancio della nuova star fu ripetuto più volte, ma mai con risultati economicamente convincenti. A dire il vero, una prima avvisaglia di un destino non facilissimo fu l’annunciata e poi smentita partecipazione di Granger a I migliori anni della nostra vita (1946) di William Wyler, quando Goldwyn decise in un secondo momento di rimodellare totalmente il personaggio previsto per Granger affidandolo a un vero reduce mutilato di guerra, il noto Harold Russell che da non professionista si portò a casa l’Oscar per il miglior attore non protagonista. Goldwyn cercò di lanciare Granger come nuovo divo romantico, ma l’attore colse il suo primo successo personale con un buon noir, La donna del bandito (1949) di Nicholas Ray. Segue una produzione anche piuttosto ricca di titoli, che tuttavia non trasformarono mai Farley Granger in una star popolare di prima grandezza. E non è forse un caso se l’attore poi abbia raccolto due partecipazioni da protagonista in pietre miliari del cinema proprio quando fu “ceduto in prestito” ad Alfred Hitchcock: Nodo alla gola (1948), primo film a colori di Hitchcock e ammirevole esempio di narrazione in tempo reale, svolta in un unico (falso, ma ben dissimulato) piano-sequenza, che non fu un successo commerciale ma che si è conquistato un posto nella storia del cinema; e L’altro uomo (1951), ottimo noir psicologico, stavolta ben accolto anche dal pubblico. Due ruoli che ben valorizzarono il volto ambiguo di Granger, inespressivo al punto giusto per nascondere perversioni superomistiche (nel primo caso) e livide rapacità (nel secondo).
Tuttavia, di lì a poco l’attore si trovò costretto a pagar cara la propria libertà artistica. Goldwyn gli impose una salatissima penale per sciogliere il loro contratto anzitempo, e probabilmente anche per questo Granger finì (un po’ inopinatamente, in effetti) nei panni del tenente austriaco che fa perdere la testa ad Alida Valli in un’altra pietra miliare, stavolta del nostro cinema: Senso (1954) di Luchino Visconti. Molto francamente, se nel capolavoro di Visconti si vuol trovare un punto debole, è facile identificarlo nella prova di Granger. Spaesato, poco coinvolto, e pure fisicamente incongruo (difficile accettarlo nel ruolo di un austriaco). Con la fucilazione del tenente Mahler, si chiude di fatto anche la carriera cinematografica di Farley Granger. Tuttavia, il cinema gli regalerà un ultimo strascico di notorietà negli anni ’70, quando, forse per far fronte a problemi economici, Granger si concesse alla serie B italiana, accettando un po’ di tutto, dal noir all’horror, al western (lo si trova anche in Lo chiamavano Trinità, 1970). Bisessuale dichiarato, il suo percorso fu quello di tanti, stritolati da una Hollywood fordista e arrogante a livelli, forse, mai più eguagliati.