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Prendere su di sé, sul proprio film, un preciso punto di vista significa seguirlo fino in fondo, assumersene la responsabilità. E’ quello che fa in maniera implacabile Stefano Sollima, regista reso noto dalle due stagioni di Romanzo criminale – La serie, scegliendo il libro di Carlo Bonini come punto di partenza di ACAB – All Cops Are Bastards, il suo primo lungometraggio per il cinema. Il film racconta la vita e il lavoro di tre agenti del reparto mobile della polizia, i cosiddetti “celerini”, e di Adriano, l’ultimo arrivato: quattro personalità, ognuna con vite a suo modo difficili, che devono convivere e compattarsi quando sono in servizio, quando fanno squadra, quando devono affrontare la violenza che colpisce Mazinga, uno di loro. Poliziesco nero e cupo, scritto da Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti, che guarda tanto al polar francese quanto ai Ragazzi del coro di Robert Aldrich facendo un film che in Italia non si vedeva, più o meno, da fine anni ’70.
Ossia un film che attraverso i moduli del cinema di genere riesca a raccontare la realtà e i suoi contesti, posizionando una riflessione sull’odio e la violenza, sul potere e sull’odore del sangue, in un periodo preciso (si parla delle elezioni di Alemanno a sindaco di Roma, di Gabriele Sandri e del commissario Raciti), in un ambiente urbano e periferico, in un proletariato che molto spesso guarda al fascismo e ai suoi derivati; ma anziché farne un pamphlet sociologico, Sollima incarna il suo film nel giovane protagonista, comunica col pubblico attraverso il suo sguardo dapprima perplesso poi sempre più compatto con quello del gruppo, e riesce a far sentire – prima che comprendere o giudicare – il respiro del branco, l’attesa e lo scontro fisico, la violenza che segna la nostra società. Lungi dalla sceneggiatura fare un semplice film di denuncia (il G8 viene liquidato dai poliziotti, con imbarazzo, come “la più grande stronzata della vita nostra”), ACAB racconta il rapporto tra ideologia e lavoro, corpo e mente, di poliziotti che più che servire e proteggere lo stato, ne creano uno loro, quello dei fratelli. E il regista riesce benissimo a rappresentare la violenza, giocando sul contrasto tra il desiderio e la visione, tra le pulsioni umane e gli orrori dell’attualità, con un ritmo cadenzato e martellante, preciso, che si nutre di montaggio acuto (Patrizio Marone) e musiche accurate (curate dai Mokadelic) come nell’incipit siglato dai White Stripes. E una visione del gioco di squadra essenziale alla riuscita emotiva del film: da qui un cast palpitante che Pierfrancesco Favino e Marco Giallini dirigono quasi da poli opposti, lasciando ad Andrea Sartoretti, Domenico Diele e Filippo Nigro gli spazi giusti per non lasciarsi oscurare. Più che uno sguardo su una pagina di storia, una riflessione dietro di essa, aspettando l’uscita di Diaz di Vicari, con cui potrebbe formare un irrinunciabile dittico sull’Italia contemporanea.
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