Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Il monitor di un computer: “Possibilità di guarigione: 50%”. A un dottore molto freddo che prima di parlare col paziente pensa alla registrazione della diagnosi, il ventisettenne Adam (Joseph Gordon-Levitt) non aveva chiesto la percentuale. Troppo forte scoprire che aver evitato di bere e fumare non gli ha comunque evitato un cancro alla schiena. Come affrontarlo? Johathan Levine in 50 e 50, presentato in concorso alla 29esima edizione del Torino Film Festival e ora in uscita in sala, trova la chiave dell’ironia per sdoganare, come fa anche Alexander Payne in Paradiso amaro (in sala a partire dallo scorso 17 febbraio e anch’esso presentato al Festival di Torino del 2011), l’idea che determinati temi quali la morte e la malattia debbano essere affrontati solo in maniera drammatica. Si muore ma per 24 ore al giorno non si pensa e non si parla solo di quello. Payne fa correre George Clooney dietro all’amante della moglie in coma, Levine permette ad Adam di continuare a vivere la propria vita di ventenne nonostante la malattia. Quindi anche se malato lascia la fidanzata che lo tradisce (Bryce Dallas Howard), continua a litigare con la madre, non smette di credere nell’amore e cercarlo.
Un lavoro che sa coniugare in maniera perfetta toni drammatici e comici per un gioco un po’ inconsueto e a tratti spiazzante dove i differenti registri, invece di alternarsi come spesso accade, convivono in un’unica scena, spesso correlati tra loro. Tutto si può affrontare con Kyle (Seth Rogen) accanto, un amico un po’ cialtrone e un po’ affettuoso, o con Katherine (Anna Kendrick) psicologa giovanissima (“sei il mio terzo paziente”) che non lo tratta da malato ma anzi lo fa riflettere sul rapporto con la madre (un’intensa Angelica Huston): “Quindi tua madre ha un figlio che non vuole parlarle e un marito che non può farlo perchè ha l’Alzheimer? Ti senti un po’ stronzo?”. Girato a Vancouver, il film si fonda sull’ottima sceneggiatura scritta da Will Reiser che ha trovato la forza di scrivere la sua storia (un cancro a vent’anni) e di farla produrre dall’amico di sempre Evan Gooldberg, trovando in Johathan Levine, al suo terzo film dopo All the boys love Mandy Lane e Fà la cosa sbagliata (premio del pubblico al Sundance), la capacità di rendere questa storia perfetta per il cinema e per il pubblico giovane – ma non solo – che aveva iniziato ad amarlo e seguirlo. Lascia che l’amicizia e l’amore per la vita, nonostante tutto, siano i fili conduttori di tutta la narrazione (toccante la scena del bagno quando Adam trova il libro “come stare accanto a un malato di cancro”, sul quale Kyle – poi non così superficiale – aveva preso appunti).
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